Archivio di giugno 2008

Heineken Jammin’ Festival 2008

venerdì 20 giugno 2008

Parco San Giuliano di Venezia. Gli aerei volano bassi. Sono arrivata ieri sera ed è come se non me ne fossi mai andata. Il caldo, le zanzare, la corsa all’ultima intervista. Tutto sembra identico allo scorso anno e invece tutto è così diverso.

La C. 3

venerdì 13 giugno 2008

Premessa: questo post avrei dovuto pubblicarlo tempo fa. Però non riuscivo a finirlo. Continuava a rimanere incompleto, come la serata di stasera. E allora penso che sia esattamente questo il suo posto. In un giorno così in cui mi sembra di aver lasciato tutto a metà. E in cui, soprattutto, mi mancano il mio amico John F. e le sue insostituibili metafore.

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Post:
Un’insegna che si illumina è come un flash che ti colpisce all’improvviso.
Se l’insegna è quella del ristorante “La C. 3” davanti al quale ripassi per caso, in macchina, allora quel flash suona come un saluto. Un po’ come l’antifurto della macchina di Moretti in “ Caos Calmo”.
E ti fa ricordare un racconto in sospeso.
Che inizia proprio lì dentro. Davanti a una tovaglia bianca di cotone spesso e resistente, inequivocabilmente quella che mia madre definisce “la tovaglia da ristorante”, due bicchieri identici, dal calice basso e il bordo colorato e un cameriere troppo amichevole, con lo sguardo appeso al mio e una voce precipitosa sulle mie incertezze.
Il menù non esiste, quindi si può far finta di scegliere tra quello che il cameriere (ma poi è un cameriere?) con un po’ di sforzo elenca, perdendo tempo, oppure molto più velocemente ordinare direttamente quello che suggerisce lui. In ogni caso le due strade porteranno allo stesso posto o meglio allo stesso piatto.
Ma io sono arrivata già ubriaca (ah gli aperitivi milanesi) ho poca fame e ho da perdere tutto il tempo che voglio e allora posso anche provare a dire che la carne non la mangio praticamente mai. E posso farlo davanti al mio amico John F. che ordina una bistecca e rimane lì tranquillo, in parte ad osservarmi divertito, in parte a vedere se ho bisogno di aiuto.
Per un attimo lo guardo e penso che mi farebbe sentire a casa anche su Marte.
Vorrei sorridergli. Forse gli sorrido.
Strano come a volte si ricordino solo le intenzioni. E’ che spesso sono più forti dei gesti.
Ma il tipo è ancora in piedi alle mie spalle, con lo sguardo tra il rassegnato e il sospeso, in attesa di un ordine da appuntare sul suo bloc notes a quadretti. Allora con il guizzo improvviso di chi intravede un modo per chiudere la partita, gli propongo in chiave “secondo” un piatto che già voleva portarmi come antipasto ma non era riuscito a piazzare.
Gli si illuminano gli occhi.
Scrive.
Come se improvvisamente gli avessi ordinato una fiorentina. E con una voce più ottimista e rilassata ci chiede del vino.
Adesso sono io a guardare John F., in parte divertita, in parte pronta ad intervenire. Le richieste vengono ovviamente reindirizzate sulla bottiglia che vuole portarci lui e noi docilmente cediamo. Il mio sorriso si trasforma in risata, forse non dovrei bere più. Ci penserò.
Quando arriva la bottiglia è John F. ad assaggiare, in uno dei due bicchieri identici, con un’espressione che non so decifrare e le parole che vengono coperte dal fragore della tavolata di fianco. Un compleanno.
Non posso fare a meno di pensare quanto sia strano questo posto, strana questa cena, strano essere quì a chiedermi da dove iniziare a parlare. John F. è una di quelle persone a cui vorresti raccontare tutto, l’ultimo film che hai visto, il nuovo programma che stai scrivendo, la tua serata ballerina. E sai anche che non avrai il tempo per farlo. Che ti incarterai, che salterai particolari importanti e che ti mancherà qualcosa.
Arriva il cibo.
Una ciotola enorme di insalata va a occupare metà del tavolo. La carne di fianco. E poi un vassoio strabordante di verdure fritte si fa spazio dove può. Lo fisso, spalanco gli occhi.
“Ne ho fatte un po’ di più, così le mangiate tutte e due” se ne esce con entusiasmio il cameriere.
Recupero il mio piattino da antipasto. Ci faccio planare un disco volante di melanzana che inizio a tagliare. Più sono pensierosa e più i pezzi diventano piccoli. E’ così strano riuscire a far combaciare le nostre vite congestionate di impegni e in perenne movimento che io e John F. finiamo anche per stare mesi senza vederci. Pero’ lui è una di quelle persone che sembrano lì, a un metro, le senti quasi respirare, anche quando non ci sono. Riesci a percepire il calore.
Sono rari gli amici così.
Devo essere buffa mentre parlo perché John F. inserisce una serie di battute dietro l’altra. Io ho i riflessi rallentati dal vino e le mie risposte sono piste di lancio per nuove frasette ironiche. Non ho le energie per difendermi e a dire il vero non mi va neanche di farlo.
Bevo il vino e affronto una zucchina.
E’ così John F.
Prende le tue paure e le butta lì, davanti a te, ci gioca, riesce a renderle innocue e quasi affascinanti.
A volte pensi che dovrebbe essere lui a raccontarti del tuo nuovo lavoro, della tua serata ballerina e di tutto il resto.

Non finiremo mai di mangiare tutto e lentamente ci arrendiamo, mentre i festeggiamenti del tavolo vicino coprono di nuovo le nostre parole.
Ci sono frasi stupide che puoi dire una volta sola. Perché se le ripeti rischiano di diventare serie. E lì cominciano le responsabilità.
Forse è l’ora di andare.
Conserverò i racconti, li scriverò forse, adesso ho soltanto voglia di ridere.
Come sempre non riesco a pagare il conto, dopotutto in un anno sono riuscita a offrire solo un drink.
Usciamo e avrei voglia di camminare ma la macchina è vicina. Ci ritroviamo a chiacchierare ancora, stavolta senza camerieri, piatti o torte di compleanno e vedo la macchina avvicinarsi, parcheggiata di fianco al marciapiede. Mentre lui continua a parlare le passiamo di fianco. La superiamo.
E di nuovo, sento il mio viso distendersi in un sorriso.

Musica: The Shins- New Slang

Musica Importante A Milano

domenica 8 giugno 2008

miami.jpeg  E’ giugno, è tempo di Miami, il festival della musica bella e dei baci. Ed è come un ritrovo. Sono stanchissima ma perfettamente lucida, TJ invece si è già persa. Per me è come guardare tutto stranamente in 3D, come se non lo fosse mai stato.
Dopo due giorni di riprese di Ultrasounds siamo distrutte, ma felici di rincontrare più o meno tutti, verificare che C. sopravvive, che a. ha cambiato casa (ma il divano c’è) che M., in gradita versione con baffi, è contento del suo nuovo lavoro.
Sorridere a qualcuno che forse non ci riconosce e ascoltare di nuovo gli Zen Circus che periodicamente tornano ad accompagnare le nostre serate.
TJ si appoggia a me. Le accarezzo i capelli. La mia “sciacquetta” preferita.
Forse piove anche stasera, ma ormai ha poca importanza.
Siamo qui.
TJ ha uno slancio di sincerità e commenta i personaggi che ci circondano, poi si rende conto ma è troppo tardi. Oddio.
Ridiamo.
Dovevamo andare via un’ora fa…

P.s.

Per raggiungere l’ingresso del MI AMI (Magnolia, Idroscalo) occorre essere presi bene e farsi portare nel punto esatto di latitudine 45.46539 e longitudine 9.285088. Impossibile perdersi. Facile innamorarsi.

Passeggio con l’ombrello.

domenica 1 giugno 2008

umbrella_in_rain.jpg E’ quasi l’una quando torno a casa. Di fretta. Piove, di nuovo. Piove da cinque giorni. Nessun parcheggio sotto casa, la macchina è finita a mezzo chilometro di distanza. Giacca di jeans usata come ombrello, faccio slalom tra le pozzanghere.
Lavorato fino a tardi, saltata per l’ennesima volta la cena con T. e S. , guidato nel traffico per 40 minuti, raggiunti per miracolo gli After che suonavano a Radio Popolare.
Sono finalmente sul marciapiede di casa quando incrocio un tipo. Mi accorgo che ha detto qualcosa solo quando lui è già alle spalle. Non ho capito.
E allora faccio una cosa tanto naturale quanto impensabile per me, all’una di notte, da sola, a Milano, sotto la pioggia. Qualcosa di sconsideratamente immediato.
Mi giro.
“Cosa?”
Lui ripete.
“Passeggio”. Sorride con tranquillità. “Passeggio con l’ombrello”.
E va.
Adesso voi penserete che questo avesse qualche rotella fuori posto.
O che fosse un vecchio insonne e un po’ svampito.
Quasi l’ho pensato anch’io. Perché quando mi è passato davanti mica l’ho visto. L’ho visto dopo, quando ormai non c’era più e di fronte a me c’era solo il cancello di casa e nell’aria una specie di strana allegria.
Era un ragazzo. Maglione, capelli ricci. E sopra di lui un grande ombrello scuro.
Mentre cerco le chiavi mi chiedo da dove arrivi quell’immagine. Quando ho avuto il tempo di registrarla. Eppure è lì.
Vi è mai capitato di ricordare particolari a cui vi sembra di non aver prestato attenzione? Ad un certo punto, semplicemente sono davanti a voi, saltati fuori chissà da dove.

Piove da giorni, un ragazzo passeggia con l’ombrello, all’una di notte, sotto casa mia. Non ha la giacca. Gli esce una frase che potrebbe dire un bambino. E per un momento ripara anche me.