Archivio di settembre 2008

Preludio.

martedì 30 settembre 2008

mani-su-chitarra.jpg

La mia amica G. chiama sempre quando avrei qualcosa da dirle.
Ma alla fine non le racconto mai niente perché è lei piuttosto a raccontarmi di sé. Quando chiudo la telefonata però è come se le avessi detto tutto. Anche se non mi è uscita una parola. Come stasera che, all’improvviso, mentre sto rientrando, di notte, a casa, dopo una giornata infinita sul set di U., mi riporta su questa terra con una dichiarazione banale quanto problematica: sono innamorata.
Si potrebbe pensare che le complicazioni arrivino come sempre dall’essere o meno corrisposti, dalla lontanza, dai dubbi di compatibilità.
Invece no.
Il problema di G. è un altro.
Il problema è che è di nuovo innamorata.
“Ti rendi conto? Non faccio altro che innamorarmi. Mi innamoro di continuo. E’ così ormai da due anni.”
Mi scappa una risata, ma so benissimo che lei è dall’altra parte, seria seria ad aspettare una risposta che sa di non poter avere.
“Beh, dopo tutto è bello innamorarsi, no? C’è chi farebbe carte false.”
Anch’io le avrei fatte una volta. Tanto tempo fa. Credevo che non mi sarebbe mai più successo e ne ero talmente certa che mi irritava qualsiasi forma di sicurezza del contrario. Una sera ero stata costretta a scriverlo su un foglio e consegnarlo ad una mia amica. Chissà se ce l’ha ancora, da qualche parte. Serissima, lei mi ci aveva fatto anche mettere la data: questo te lo ridò fra un po’. Eravamo sedute sugli scalini in una piazza di Prato, in un’estate che non se ne andava più.
“Sì sì… forse una volta avrei dato qualsiasi cosa… Però adesso è diventato impossibile. E’ che continuo a perdere la testa.” E mi racconta dell’ultimo ragazzo che ha incontrato, non lo conosce nemmeno, ma lo sento dalla voce, che già non capisce più niente. E’ bello sentire tutta quell’emozione che straripa nelle pause tra una parola e l’altra e nei sorrisi che non posso vedere.
Non faccio fatica a crederle. Le sue infatuazioni sono tanto sincere quando destinate a evaporare, inevitabilmente, così some si sono materializzate. G. non si innamora delle persone ma di una loro caratteristica. Una volta è la voce profonda di un cantante, una volta l’aria trasognata di uno studente pieno di speranze oppure il piglio sicuro e deciso di un avvocato in carriera o i movimenti sensuali di un ballerino. Vive le loro vite per un po’ e poi le abbandona, naturalmente, senza nemmeno accorgersene. Scivola via, così. Forse, alla fine, è solo un modo per non dover vivere la sua di vita.
G. è attenta e ad un certo punto si accorge che sono finita da un’altra parte.
Allora se ne esce con una di quelle intuizioni che solo lei può avere.
“Ti ricordi quando abbiamo girato una giornata alla ricerca di quel pezzo di musica classica che ti piaceva tanto? Oggi ho ritrovato il cd. Pensavo di averlo perso nel trasloco. Lo so che non c’entra niente ma ti ho pensato.”
Certo che me lo ricordo. Non sapevamo nemmeno che pezzo fosse. L’avevamo ascoltato per caso in un film. E io ero rimasta incantata. All’inizio avevamo provato a canticchiare la melodia, poi avevamo chiesto aiuto a genitori, insegnanti di piano, commessi dei negozi di dischi. E alla fine l’avevamo trovato.
Saranno passati dieci anni. E ancora adesso quando l’ascolto mi fa girare la testa.
“Davvero?”. Vorrei dire un’altra cosa. Ma non ce la faccio.
“Dai, ho capito, ti lascio riposare. Ci sentiamo domani. Dormi bene… “, si arrende, ma sempre con quell’aria leggera di chi già pensa a quando lo rivedrà.
Buonanotte.
Spengo il telefono. Sono già nel letto, gli occhi ormai ridotti a una fessura, quando penso che avrei potuto dirle che quel pezzo oggi l’ho sentito accennare su una chitarra, con la luce che se ne andava via troppo velocemente, in mezzo a una terrazza sbucata nel nulla. Il tetto del mondo, per un attimo.
Domani, magari, glielo racconterò e tutto sembrerà un po’ meno incredibile. Ma stasera si sarebbe innamorata di nuovo. Anche senza poterselo permettere. Lo so. Mentre mi tiro fino al naso la coperta, penso che la mia testa non sarebbe stata abbastanza ferma per tutte e due, stasera. Sono troppo stanca. E dopotutto è bello così.

Nella testa: Johann Sebastian Bach- Suite per violoncello n.1- Preludio

Finali, cloro, estati.

mercoledì 24 settembre 2008

Questo post è per i film usciti male. Per i vestiti sbagliati, le musiche sbagliate, i momenti sbagliati. I passi sbagliati. E’ per le frasi ormai sbavate di dialoghi già sbiaditi.
E per l’improvvisa, incomprensibile, voglia di cantare sopra un finale che sa di cloro.

In radio (sbagliando strada): Kid Rock- All Summer Long

Electropausa

martedì 23 settembre 2008

dd1698_milano_navigli_notte.jpg Sono quasi le tre quando entro in casa di TJ. Anche qui sui navigli, tra strette strade di gin lemon e daiquiri, è un lunedì che si spegne senza clamori.
E’ guardando giù, in cerca di briciole di sonno, che soffio via fino all’ultimo pensiero. Perché qualsiasi cosa dirò ,qui, andrà bene comunque.
Non sarà irragionevole o inutile.
Almeno fino a quando non sarà davvero ora di tornare a casa, con il rumore delle macchine che puliscono le strade nelle orecchie e l’impronta del tacco di una ballerina troppo intraprendente sui piedi.
Tra meno di quattro ore suonerà la sveglia.

Musica: Gotan Project- Queremos Paz

Capitolo 4: Safari

domenica 21 settembre 2008

Il silenzio è una di quelle cose tipo i tramonti. Non si sa mai come descriverli.
Cominci, pieno di volontà, con il tuo bagaglio di aggettivi ma poi lasci perdere.
E semplicemente fai quello che faresti davanti a un tramonto.
Cioè: stare lì.
Sei in mezzo alla savana, a due passi dall’equatore, chiuso in una tenda ad aspettare che faccia giorno mentre speri che quel silenzio duri abbastanza per potertelo ricordare.
Sei lì ad attendere il primo rumore che se lo porterà via.
Ed è in un punto imprecisato di quell’attesa che ti addormenti.

Tutto è iniziato meno di 24 ore prima con quelle sveglie che suonano all’alba e ti riportano troppo bruscamente in qualsiasi mondo tu abbia lasciato prima di addormentarti.
Sbatto le ciglia un po’ di volte rendendo intermittente l’immagine quieta e perentoria di uno zaino chiuso, appoggiato sul pavimento scuro e sorvegliato da un gieco incollato alla parete a pochi metri di distanza .
Si parte.
La jeep stavolta è un po’ più moderna. Ci infiliamo dentro e crolliamo più o meno tutti addormentati. Ma il sonno dura pochissimo. Le buche di cui è tappezzata quel rigagnolo di polvere chiamata strada ci sballottano da una parte all’altra. A volte ci dobbiamo quasi fermare e accostare il più possibile al ciglio per evitare di lasciare le gomme in quei piccoli crateri.
Siamo di nuovo in mezzo al nulla. Un nulla interrotto sporadicamente da qualche villaggio, che spunta all’improvviso, senza un perché, e poi scompare, inghiottito dalla polvere.
Quei grumi di case di terra e foglie sembrano tanti piccoli asili dispersi in una terra sempre più rossa. Gli unici abitanti, a quest’ora, sono bambini che al rumore della nostra jeep si precipitano in strada in cerca di caramelle.
Distribuiamo tutte quelle che abbiamo ma ci rendiamo subito conto che non sono abbastanza. Sono piccoli eserciti lasciati davanti alle loro case, i più grandi tengono in braccio o per mano i fratellini, come è stato insegnato loro, ma quando si tratta di afferrare una caramella si dimenticano di qualsiasi regola. Chi ha il braccio più lungo vince. Nonostante i nostri tentativi di distribuire equamente.
La scena si ripete varie volte fino a quando anche i villaggi isolati spariscono e allora non ci rimane altro che fissare il paesaggio più o meno identico che ci scorre davanti.
E’ mattina inoltrata quando arriviamo alla nostra prima meta. E’ una grande riserva privata, vicino al parco dell Tsavo.
Qui, ci spiega la nostra guida, sono permessi i fuori pista e a differenza del parco non incontreremo nessuno.Infatti siamo i soli ad addentrarci tra la vegetazione che si stende davanti a noi.
Apriamo il tetto della jeep.
Ci siamo.

All’inizio non è così semplice vedere gli animali. Neanche quelli grandi. I loro colori sono esattamente quelli della savana ed è difficile staccare in qualche modo le loro figure dallo sfondo.
Io faccio davvero fatica, ma per fortuna c’è chi è più esperto di me.
I primi che vedo, tra gli alberi, sono degli elefanti.
E la prima impressione è la più stupida.
Sono enormi.
Poi arrivano i dettagli: la rugosità della pelle, le pieghe delle orecchie, gli occhioni un po’ malinconici, le zampe piatte, l’infinita proboscide arricciata che strappa foglie a destra e a sinistra.
La mattinata prosegue con avvistamenti di uccelli e altri piccoli animali, tra cui le numerossissime antilopi d’acqua, una specie di bambi con il fondoschiena bianco, facile attacco dei predatori. Sono un po’ il big mac della savana, scherza A. Le povere erbivore, infatti, passano gran parte della loro vita a tentare di salvarsi la pelle correndo più veloce dell’inseguitore.
E’ quando stiamo per uscire, che si prepara di fianco la noi la scena che più ci ricorderà questo safari. Atroce come lo è la natura.
A pochi metri dalla nostra jeep, ci sono due leoni che hanno appena cacciato una preda. Uno di loro la addenta, con la bocca rossa di sangue, ma poi si ferma. E ci guarda. Fisso, immobile. Per un’eternità.
Spegniamo il motore e continuiamo ad osservare quel muso sporco tra i cespugli e quei due occhi che non accennano a spostarsi di un millimetro.
Nessun rumore intorno a noi.
Ad un certo punto, all’improvviso, il muso sparisce e ci sembra che ne compaia un altro, è semicoperto dai cespugli e non vediamo bene.
Ma all’improvviso sentiamo l’unico rumore di tutta la scena.
A interrompere i respiri e i pensieri.
E’ un ringhio.
Ed è subito seguito da una zampata del primo leone che si avventa sul secondo.
Evidentemente non era arrivato il suo turno per mangiare. Ci sono delle regole da seguire e la nostra presenza non le rompe.
A questo punto rimane un gioco di attese: i leoni sorvegliano la preda aspettando, infastiditi, che togliamo il disturbo mentre noi aspettiamo che loro emergano di nuovo dai cespugli.
Ma questo non è uno zoo, noi siamo solo degli intrusi e quindi riaccendiamo il motore della jeep e decidiamo di andare.
E’ da poco passato mezzogiorno e la giornata di oggi è infinita. Rimbocchiamo la strada principale portandoci dietro l’immagine di quei due leoni. Se ne aggiungeranno molte altre in quei giorni, ma quella non ce la dimenticheremo più. Usciamo dalla riserva. Direzione: Parco dello Tsavo.

(continua)

Capitolo 3: Granchi in fuga e giraffe d’ebano.

martedì 2 settembre 2008

Jambo.
Ciao.
Alle nostre costole, durante le escursioni, si materializza spesso un set di ragazzini africani. Con un’organizzazione perfetta si dividono tra di noi, accompagnandoci ad ogni passo e cercando di costruire la conversazione su quelle parole di italiano consumate da anni di esercizio con romani intraprendenti e milanesi in relax. La loro insistenza mi irrigidisce un po’, loro lo percepiscono immediatamente e finiscono per andare ad attorniare A. che, più predisposto alle chiacchiere sarà, secondo la loro esperienza, più propenso alle mance.
Non hanno niente da vendere, a parte la loro terra.
Ma hanno imparato perfettamente quello che viaggiatori come noi vanno cercando.
E così quando ci fermiamo a guardare un granchietto che si muove velocemente sulla sabbia si fanno in quattro per permetterci di fotografarlo e appena lui sparisce nel tipico buchetto, loro non esitano un secondo e si mettono a scavare.
Figurati se lo ripescano, penso mentre le loro mani minute e rapide rimuovono sabbia alla velocità della luce, formando una buca enorme rispetto all’originale e sempre più profonda, alla ricerca dell’animaletto nascosto.
Non solo lo trovano, ma riescono anche a prenderlo e portarlo davanti alle nostre macchine fotografiche.
Pochi giorni dopo, ragazzi come loro avrebbero fatto lo stesso con un pesce palla, in un atollo dell’oceano indiano, destinandolo però alla morte, dopo averlo tolto dall’acqua per mostrarlo in giro.
Non hanno niente da vendere, a parte la loro terra.
E nella loro forma di commercio sanno essere ingenuamente spietati.
Gli adulti invece qualcosa ce l’hanno. Ed è identico per tutti. Standardizzati souvenir per turisti pieni di colori e, spesso, anche di polvere.
Arrivano come possono, quando e dove meno te l’aspetti, su una spiaggia deserta o in mezzo al mare. In bicicletta, a piedi, in barca. Con le loro ceste gialle e la loro africa di ebano.
La contrattazione inizia non appena ti avvicini.
Ti chiedono 10 euro, tu gliene offri 5, chiudi a 7 e loro a 3 ti avrebbero già fregato.
Ma non esistono truffe, esistono solo due mondi. E due prezzi. Noi ci portiamo dietro inevitabilemente il nostro modo di vivere la vita e con quello anche I suoi costi. Paghiamo un pareo quanto l’avremmo pagato su una delle nostre spiagge, sdraiati sotto un ombrellone a strisce bianche e blu, a uno dei tanti immigrati che prova a guadagnarsi la giornata.
Ma qui il vicino d’ombrellone non ti guarda.
Anzi, non ci sono nemmeno ombrelloni.
Ci sono gli alberi.
Semplice.
No?

(P.s. Per chi se lo chiedesse, la foto al granchio è stata fatta mentre se ne stava indifferente ai nostri piedi mentre quella al pesce palla non esiste perché non è mai stata scattata. Rubiamo le anime, non le vite.)