Capitolo 4: Safari

Il silenzio è una di quelle cose tipo i tramonti. Non si sa mai come descriverli.
Cominci, pieno di volontà, con il tuo bagaglio di aggettivi ma poi lasci perdere.
E semplicemente fai quello che faresti davanti a un tramonto.
Cioè: stare lì.
Sei in mezzo alla savana, a due passi dall’equatore, chiuso in una tenda ad aspettare che faccia giorno mentre speri che quel silenzio duri abbastanza per potertelo ricordare.
Sei lì ad attendere il primo rumore che se lo porterà via.
Ed è in un punto imprecisato di quell’attesa che ti addormenti.

Tutto è iniziato meno di 24 ore prima con quelle sveglie che suonano all’alba e ti riportano troppo bruscamente in qualsiasi mondo tu abbia lasciato prima di addormentarti.
Sbatto le ciglia un po’ di volte rendendo intermittente l’immagine quieta e perentoria di uno zaino chiuso, appoggiato sul pavimento scuro e sorvegliato da un gieco incollato alla parete a pochi metri di distanza .
Si parte.
La jeep stavolta è un po’ più moderna. Ci infiliamo dentro e crolliamo più o meno tutti addormentati. Ma il sonno dura pochissimo. Le buche di cui è tappezzata quel rigagnolo di polvere chiamata strada ci sballottano da una parte all’altra. A volte ci dobbiamo quasi fermare e accostare il più possibile al ciglio per evitare di lasciare le gomme in quei piccoli crateri.
Siamo di nuovo in mezzo al nulla. Un nulla interrotto sporadicamente da qualche villaggio, che spunta all’improvviso, senza un perché, e poi scompare, inghiottito dalla polvere.
Quei grumi di case di terra e foglie sembrano tanti piccoli asili dispersi in una terra sempre più rossa. Gli unici abitanti, a quest’ora, sono bambini che al rumore della nostra jeep si precipitano in strada in cerca di caramelle.
Distribuiamo tutte quelle che abbiamo ma ci rendiamo subito conto che non sono abbastanza. Sono piccoli eserciti lasciati davanti alle loro case, i più grandi tengono in braccio o per mano i fratellini, come è stato insegnato loro, ma quando si tratta di afferrare una caramella si dimenticano di qualsiasi regola. Chi ha il braccio più lungo vince. Nonostante i nostri tentativi di distribuire equamente.
La scena si ripete varie volte fino a quando anche i villaggi isolati spariscono e allora non ci rimane altro che fissare il paesaggio più o meno identico che ci scorre davanti.
E’ mattina inoltrata quando arriviamo alla nostra prima meta. E’ una grande riserva privata, vicino al parco dell Tsavo.
Qui, ci spiega la nostra guida, sono permessi i fuori pista e a differenza del parco non incontreremo nessuno.Infatti siamo i soli ad addentrarci tra la vegetazione che si stende davanti a noi.
Apriamo il tetto della jeep.
Ci siamo.

All’inizio non è così semplice vedere gli animali. Neanche quelli grandi. I loro colori sono esattamente quelli della savana ed è difficile staccare in qualche modo le loro figure dallo sfondo.
Io faccio davvero fatica, ma per fortuna c’è chi è più esperto di me.
I primi che vedo, tra gli alberi, sono degli elefanti.
E la prima impressione è la più stupida.
Sono enormi.
Poi arrivano i dettagli: la rugosità della pelle, le pieghe delle orecchie, gli occhioni un po’ malinconici, le zampe piatte, l’infinita proboscide arricciata che strappa foglie a destra e a sinistra.
La mattinata prosegue con avvistamenti di uccelli e altri piccoli animali, tra cui le numerossissime antilopi d’acqua, una specie di bambi con il fondoschiena bianco, facile attacco dei predatori. Sono un po’ il big mac della savana, scherza A. Le povere erbivore, infatti, passano gran parte della loro vita a tentare di salvarsi la pelle correndo più veloce dell’inseguitore.
E’ quando stiamo per uscire, che si prepara di fianco la noi la scena che più ci ricorderà questo safari. Atroce come lo è la natura.
A pochi metri dalla nostra jeep, ci sono due leoni che hanno appena cacciato una preda. Uno di loro la addenta, con la bocca rossa di sangue, ma poi si ferma. E ci guarda. Fisso, immobile. Per un’eternità.
Spegniamo il motore e continuiamo ad osservare quel muso sporco tra i cespugli e quei due occhi che non accennano a spostarsi di un millimetro.
Nessun rumore intorno a noi.
Ad un certo punto, all’improvviso, il muso sparisce e ci sembra che ne compaia un altro, è semicoperto dai cespugli e non vediamo bene.
Ma all’improvviso sentiamo l’unico rumore di tutta la scena.
A interrompere i respiri e i pensieri.
E’ un ringhio.
Ed è subito seguito da una zampata del primo leone che si avventa sul secondo.
Evidentemente non era arrivato il suo turno per mangiare. Ci sono delle regole da seguire e la nostra presenza non le rompe.
A questo punto rimane un gioco di attese: i leoni sorvegliano la preda aspettando, infastiditi, che togliamo il disturbo mentre noi aspettiamo che loro emergano di nuovo dai cespugli.
Ma questo non è uno zoo, noi siamo solo degli intrusi e quindi riaccendiamo il motore della jeep e decidiamo di andare.
E’ da poco passato mezzogiorno e la giornata di oggi è infinita. Rimbocchiamo la strada principale portandoci dietro l’immagine di quei due leoni. Se ne aggiungeranno molte altre in quei giorni, ma quella non ce la dimenticheremo più. Usciamo dalla riserva. Direzione: Parco dello Tsavo.

(continua)

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