Room Service.

az-hotel-room1 Gli alberghi indicano, da sempre, lontananza.
Poco importa che la tua città sia poco più in là, a un passo dal confine e che i lampi di tv che si infrangono sulla parete opposta al tuo letto riflettano immagini conosciute.
La vasca in cui ti sei appena immersa non è la tua, le lenzuola in cui fai quasi fatica ad entrare hanno l’inconfondibile caparbia piega della lavanderia e le spesse ed elaborate tende alla finestra si fanno tirare a fatica, mentre speri che non lascino filtrare la luce del mattino.
E poi c’è silenzio.
Quel silenzio ovattato che lascia passare qualche piccola frequenza di suoni che sembrano provenire da un altro mondo. Stanze lontane anni luce, con chissà quali vite dentro.
Qui il tempo un po’ si annulla, così come lo spazio. Tante piccole ricostruzioni della nostra idea di casa, un puzzle di camere su un piano qualunque, nei pressi di una stazione, in una notte di maggio dove l’aria fredda ti si infila dentro la giacca, una di quelle sere che ti riportano subito addosso l’inverno.
Potresti essere ovunque e non avrebbe importanza: ti Senti lontano.
E questo basta perché tutto si amplifichi. Le sensazioni, le emozioni, i pensieri.
E’ come se questi non-luoghi che sono le stanze d’albergo togliessero dei filtri innescati dentro di noi.
Mentre mi asciugo i capelli penso a un frammento di una vecchia intervista che per qualche strano motivo mi è sempre rimasta in mente. Partiva con la solita domanda di routine, all’artista di turno, sullo status della sua relazione sentimentale. Non sentiva la sua ex compagna da molto, si diceva. Lui aveva risposto: non l’ho mai chiamata per mesi, anche se ho sempre pensato di farlo e poi, un giorno sono partito per New York, per lavoro, e appena sono arrivato là, dalla mia camera d’albergo l’ho chiamata.
Non c’è niente da fare.
Cerco il pigiama nella borsa, prima di disperdere il calore accumulato in quella specie di sauna in cui ho trasformato il bagno, e sono sempre più convinta che ogni tanto serva davvero un hotel.
Per fare le domande che servono e per trovare la capacità di leggere le risposte, per chiederci che cosa ci va di fare domani e per capire in che modo questo ci definisce, e soprattutto, per non lasciarci distrarre da quello che di noi abbiamo proiettato sulle pareti delle nostre case.
Ogni tanto abbiamo bisogno di un po’ di schiettezza e di sincerità.
Del bianco immobile e senza scuse di una camera d’albergo.
Basta una notte, anche solo un breve passaggio.
La nostra vita, da qui, è così lontana e così vicina.
Faraway so close.
In attesa del mattino.

3 Commenti a “Room Service.”

  1. Davide scrive:

    E’ successo anche a me: le lenzuola dalla piega coriacea e le dita sul telefonino, a comporre quel numero un tempo così familiare e poi lungamente rimosso.
    Credo sia perché a casa nostra tutto ci rispecchia e ci conforta. Una casa è fondamentalmente un riparo e agisce da lenitivo anche a livello psicologico.
    Gli alberghi, invece, sono una metafora della vita: vissuti in due, suggeriscono l’idea della vacanza.
    Affrontati da soli, sono buoni solo per commessi viaggiatori e rock star suicide.

  2. Caterina scrive:

    Mi viene da ridere e da piangere al contempo: un’altra coincidenza, un altro bivio di vite che non si incrociano ma si contemplano, tutto quello che ci dicevamo e non via messaggio
    Brava Sara. Un abbraccio
    Cate

  3. Menphis scrive:

    Sarà che io non vado in giro per il mondo come te, per cui l’albergo per me se ci vado è sinonimo di “finalmente in vacanza”.
    Fino a “ieri” pensavo che il luogo ideale per farsi delle domande sulla propria esistenza e tentare di darsi delle risposte fosse sull’isola dei famosi!!!! :-)
    Da quanto non ci si “sente”. Urge un’intervista come se tu fossi una star: situazione sentimentale? Un abbraccio***