Recitare “Pensilina Vonnegut”.
14 gennaio 2012Girare il trailer di un libro non è una cosa facile.
Le difficoltà sono state tante. Poco tempo, tanto freddo e un piccolo team. Beh, devo dire che anche non avere un soldo in effetti non aiuta…
Senza di loro non ce l’avrei mai fatta. Sono gli attori che, in una giornata di novembre da battere i denti, hanno recitato per “Pensilina Vonnegut”. E Jennifer Keber che ha saputo vedere quello che vedevo io.
Marco Continanza si è diplomato alla Scuola Internazionale di Teatro diretta da Kuniaki Ida e da circa dodici anni alterna l’attività teatrale con la compagnia comasca TCM, diretta da Mario Bianchi, alle produzioni televisive e cinematografiche. Si chiama come uno dei protagonisti del libro, a tratti ha lo stesso sguardo un po’ perso e appena l’ho visto ho pensato che fosse semplicemente destino.
Giulia di Fonzo si è avvicinata al teatro dopo la laurea in Filosofia. Ha studiato con registi e attori importanti (D. De Fazio, C. Brie, C. Autelli, tra gli altri ) e ha partecipato ad allestimenti teatrali, cortometraggi, pubblicità. Ha uno di quei sorrisi che ti lasciano senza difese ed è stato il punto di partenza del nostro casting. Senza di lei saremmo ancora a chiederci da dove iniziare.
Rossella Canevari è autrice tv e scrittrice. I suoi romanzi “Voglio un mondo rosa shokking”, “Un amore rosa shokking” e “No Panic”, editi da Newton Compton, hanno avuto un grande successo. Ma noi abbiamo scoperto che ha anche un passato da attrice… E si vede.
Giorgia Hauff ha 16 anni, frequenta la terza liceo scientifico ed è una ballerina di danza classica. Ha partecipato, insieme alla sua famiglia, al programma televisivo “Best Of The Block” in onda su Cielo. Ed è proprio lì, dietro le quinte, che l’abbiamo scovata! Di poche parole, è una ragazza di una bellezza così timida, limpida e leggera da sembrare di un’altra epoca. Non poteva che colpirci.
La regia è di Jennifer Keber, inseparabile amica e filmmaker molto brava. Non ama parlare molto di sé ma se cercate su Vimeo trovate i suoi lavori.
Un grazie infinito a tutti loro.
Pensilina Vonnegut - Booktrailer
21 dicembre 2011Pensilina Vonnegut
18 dicembre 2011Seguire la nascita e il percorso di un libro non è facile da descrivere. Però posso dirvi che sarebbe tutto più difficile se non avessi accanto delle persone bravissime che mi aiutano, come Valeria Pelleschi e Riccardo Biemmi che seguono la promozione, Daniele Bogo che è un piccolo mago della grafica, Carlotta Pistone che è ormai un piccolo riferimento per le presentazioni degli scrittori esordienti a Milano, Stefano Giuntini che si occupa di tutto quello che riguarda la mia città. E un mare di altre persone di cui piano piano vi parlerò. Insomma si è creato un vero e proprio Pensilina Vonnegut Team!
Intanto è on line la pagina FB del libro.
https://www.facebook.com/Pensilina.Vonnegut
“Let me keep this memory, just this one”.
2 novembre 2011Quanto durano sei mesi?
La risposta è: non lo so.
Pensavo che l’avrei capito prima di tornare a scrivere e invece no. Ho imparato che certe distanze non si misurano solo con il tempo. E che ci vuole un’enorme fiducia, sempre. Perché, come dice M. a volte basta accorgersi di saper respirare.
Pensavo anche che la vita stava andando completamente dall’altra parte rispetto alla direzione che avrei voluto dargli. Mi sbagliavo. Non è detto che se curvi vai per forza fuori strada.
E pensavo anche che la storia che avevo scritto non avrebbe mai visto la luce, almeno quella che si riflette sulle pagine di carta, da segnare e stropicciare. Altro errore.
Quella storia è diventata “Pensilina Vonnegut”, il mio primo romanzo.
Esce il mese prossimo e questo mi rende, semplicemente, felice.
Dove sei
5 maggio 2011- Ciao, dove sei?
- Alla Feltrinelli
- Ah, compri libri come al solito?
- No, non in questo momento. Più tardi forse qualcuno lo comprerò.
- Ma che fai?
- Lavoro.
- Ah.
- Butto giù un po’ di idee per un programma.
- Ma stai aspettando qualcuno?
- No.
- Ma perché lavori lì, scusa?
- Perché mi fa sentire bene.
- …
- …
- In effetti se non mi ricordo male ci sono anche le poltroncine per sedersi. Non sono neanche scomode. Ci ho letto quasi metà libro una volta. Beh, ripensandoci, potevo anche leggermelo a casa perché poi l’ho comprato lo stesso. Comunque, se non c’è troppa gente…
- No, non c’è gente.
- La gastrite?
- Sta lì. Più o meno controllata.
- Allora ci vediamo stasera?
- Ok.
- Orario aperitivo. Ci beviamo due bottigliette d’acqua insieme.
- Perfetto.
- Ti voglio bene.
- Anch’io.
Starnuto per caso
11 aprile 2011
Cammino per la strada, impermeabile al mondo esterno, il pilota automatico guida verso casa. Non c’è quasi nessuno in giro, sembra estate piena. Giro l’angolo e sul marciapiede, in lontananza davanti a me, c’è solo un signore con le stampelle che cammina lentamente, saltellando ritmicamente verso la sua meta. Sto quasi per raggiungerlo quando trattengo il respiro per un attimo, mi fermo e… starnutisco.
Quando riprendo a camminare mi accorgo che il signore si è fermato e si è girato verso di me.
Devo aver starnutito proprio forte, ma con le orecchie immerse nella musica del mio ipod è difficile dirlo. Continuo ad andare avanti mentre vedo che lui, ancora fermo, sta per dirmi qualcosa. Mi tolgo le cuffie.
- Ha starnutito proprio come mia moglie.
- Scusi?
- Sì, anche lei starnutisce così, forte, e con tutto il corpo.
Ha un accento straniero ma non riconosco tratti somatici particolari e non saprei davvero dire da dove provenga.
- Io li trattengo un po’ gli starnuti, così.
E ne accenna uno.
- Ma mia moglie fa proprio come lei.
Io non so cosa dire, sembra la versione post-moderna del tenente Colombo. Chissà se ha anche un cane. Però è gentile. Mi passo una mano sulla fronte e respiro: fa troppo caldo.
- Si sente bene? - mi chiede guardandomi.
Devo essere davvero pallida. Mi sento stanchissima, devo ancora mangiare e ho avuto un’altra cattiva notizia. Insomma non è proprio una bella giornata.
- Si certo.
- Comunque quelli che starnutiscono così hanno tanta forza.
E riprende a camminare, lentamente, con le sue stampelle. Mi sorride: - Buona giornata!
- Buona giornata a lei.
Mi rimetto le cuffie, lo supero e vado dritta verso il mio portone. Magari era solo stanco e si voleva riposare un attimo, deve essere faticoso camminare in quel modo, con questo sole.
Gli U2 partono random sul mio I-pod e mi accompagnano in ascensore. If god will send his angels… Ecco, se stessi scrivendo un racconto e volessi metterci dentro un angelo credo che ci metterei un tipo stralunato come quello che ho appena incontrato. Con le stampelle, un accento strano e una moglie che starnutisce più forte di lui. Ma che sotto sotto ti dice che ce la puoi fare.
Nel mio I-pod: U2- If god will send his angels.
Natale 2010
29 dicembre 2010E’ il 21 dicembre.
Entro alla Feltrinelli per fare gli ultimi acquisti di Natale e come al solito rimango un’ora a perdermi tra i titoli: tutti quelli che vorrei comprare, tutti quelli che vorrei regalare, tutti quelli che vorrei leggere lì, seduta su altri libri, circondata dal fantastico e rassicurante odore retrò e della carta.
Non so se ci avete fatto caso ma a Natale in libreria si trova chiunque. Anche chi ci va una volta all’anno, un po’ come in Chiesa. I libri sono regali comodi, comunicano cultura anche se non ce l’hai, costano poco e soprattutto si incartano che è una favola: un parallelepipedo perfetto da avvolgere nella carta colorata o addirittura inserire in una di quelle praticissime buste rosse con copriprezzo coordinato.
Vedo facce disorientate, facce annoiate, facce ansiose che si posano sugli scaffali alla ricerca di una meta. C’è chi ha in mano un libro di cucina e poi improvvisamente vede un libro di poesie in offerta, in un baleno molla le costose ricette e afferra le più economiche rime con un sorriso “questo andrà benissimo”. Chi non capisce che gli autori sono in ordine alfabetico e pensa che non troverà mai niente. C’è chi si precipita sui libri da classifica pensando che siano trendy come gli-immancabili-accessori-della prossima-primavera-estate.
Cose così.
Poi c’è chi, in preda al panico, si affida ad uno dei commessi.
Studenti, appassionati di letteratura, plurilaureati divoratori di libri, lettori accaniti, acuti recensori con il volto stanco e appesantito da uno stipendio che li lascia senza futuro aspettano questo momento da una vita.
Un consiglio.
Come si faceva e forse si fa ancora nelle piccole librerie di fiducia.
Il “libraio” ti accompagna nel tuo viaggio, segue le tue letture proponendotene altre in cui ti riconosci, inseguendo i tuoi gusti ma anche sorprendendoti con autori che non avresti letto mai e titoli che da solo non avresti mai scoperto.
Ecco, una signora si è avvicinata e vuole un consiglio.
Da qualcuno che ha letto più di lei.
Che si sa districare tra correnti e autori.
Che conosce le voci più brillanti della letteratura mondiale.
Che può guidarla…
“Vorrei un libro per mio nipote.”
Il commesso smette di impilare libri e con voce contenta, risponde.
“Bene. Quanti anni ha?”
“15″
“Ha già un autore in mente?”
“Pensavo Flaubert”
Il commesso si blocca un momento. Probabilmente gli è comparso davanti agli occhi in un flash Madame Bovary, poi si è immaginato il nipote alle prese con le nuove applicazioni del suo iphone 4G in attesa di guardare l’ultima serie di Dexter.
“Non ha preso in considerazione anche qualche contemporaneo? Potrei consigliarle un paio di scrittori molto brillanti che potrebbero essere interessanti. Se poi è un regalo di Natale, magari sua nipote potrebbe apprezzare qualcosa di cui non si parli a scuola.”
“Contemporaneo?”
“Sì.”
“No, ecco… vede…”
“Sì’?”
“Vorrei qualcosa con del contenuto.”
La faccia del povero commesso rimane appesa così, alle parole della signora.
“Signora”. Respira. “Se un libro è contemporaneo non significa che non abbia contenuto.”
La risposta della signora si perde nel rumore della folla.
Vedo che il ragazzo le mostra un paio di libri.
Lo guardo mentre si affanna a parlare parlare parlare. Poi la signora prende in mano uno dei due libri e sorride, ringraziando.
Il ragazzo se ne va, soddisfatto, e torna a disfare uno scatolone, con pazienza.
La signora rimane un po’ ferma.
Poi viene verso di me.
Mi supera.
Punta dritta alla F.
F-laubert.
Si abbassa a prendere un libro.
Appoggia quello che aveva su un altro scaffale, velocemente e scappa alla cassa.
Il ragazzo sta ancora svuotando lo scatolone e non la vede. Starà pensando che ha salvato il regalo di Natale di un ragazzino, che qualcuno si è finalmente fidato di lui e che per una volta ha fatto quello che ha sempre pensato essere il suo lavoro.
Al volo recupero il libro abbandonato e con noncuranza lo rimetto al suo posto.
Prendo i miei acquisti e vado verso l’uscita.
E’ Natale, quasi.
Blog, cavalli e film western.
12 ottobre 2010S. oggi mi ha ricordato che è una vita che non scrivo su Invisibilia. Anzi, mi ha detto il giorno esatto: 7 maggio.
In questi mesi mi è capitato di riflettere su che cosa fare di questo blog. Ogni tanto ho pensato che non avesse più senso. Lo ha avuto in passato, mi sono detta, ma adesso forse no. Ha svolto il suo compito in un momento in cui c’era da imparare a buttare fuori dopo aver tenuto troppo dentro.
Nei racconti delle persone che ho incontrato, dei libri che ho letto e di tutte quelle vite che mi sono passate davanti, ho cercato un po’ anche il mio posto, per tentativi, così, come se dovessi scoprire una volta per tutte cosa davvero mi piace e cosa invece non sopporto, cosa mi fa stare male e cosa mi fa stare bene, cosa mi fa piangere e cosa mi fa ridere. Al di là di quello che è giusto, di quello che mi hanno insegnato e di tutto quello che avrei sempre voluto che fosse.
Erano piccole cose, era soltanto riconoscermi in qualcosa o in qualcuno che mi passava di fianco.
Poi è successo che tutto quello che c’era qui, su queste pagine, ho di nuovo dovuto portarlo dentro, perché servivano tutte le mie energie, i miei pensieri e le mie speranze per far funzionare quel famoso mondo che sta in piedi solo se impari come si fa. I problemi si sono aggrovigliati e non bastava trovare un solo filo.
Così sono stata lì, con pazienza, a cercare tutti i bandoli, in tutto quello che di concreto avevo intorno. O che non avevo più. A farmi domande troppo grandi per poi ricominciare dalle piccole. A volte si fa fatica a farsi le domande giuste, perché poi, con le risposte, non si può più imbrogliare.
Ed ora eccomi qua, con quel mondo che ancora sta lì, insicuro, vacillante sul suo equilibrio precario mentre io non ho certo capito come tenerlo ben saldo in piedi ma ho soltanto imparato ad avere meno paura di vederlo cadere.
Allora è questo, ho pensato, che ha davvero fatto Invisibilia.
Ha messo le emozioni lì davanti a me, per togliere loro il timore e l’imbarazzo. Per portare via il terrore, la vergogna. Lo spaesamento.
Invisibilia non ha certo tenuto in piedi il mondo, ma ha fatto volare via un po’ di paura.
Tutto quello che è passato da queste pagine, le parole, gli avvenimenti, le giornate, anche quelle andate a male, è diventato più innocui e ha fatto meno male.
Ecco perché ci sono volte in cui mi manca da morire.
Come stasera.
In cui non vorrei avere paura.
Delle delusioni, delle frasi uscite a metà e dei personaggi che non riescono mai a correre dritti, verso l’orizzonte. Come i cowboy nei film western.
Senza girare i cavalli a caso in cerca di una direzione.
E soprattutto senza sbagliare battuta.
Hop.
In sella.
Ed ecco perché credo che il blog se ne starà ancora qua per un po’, se non altro a ricordarmi che non c’è da aver timore. Anche nel più stupido copione del mondo, se c’è un tramonto, prima o poi qualcuno lo inseguirà.
Room Service.
7 maggio 2010 Gli alberghi indicano, da sempre, lontananza.
Poco importa che la tua città sia poco più in là, a un passo dal confine e che i lampi di tv che si infrangono sulla parete opposta al tuo letto riflettano immagini conosciute.
La vasca in cui ti sei appena immersa non è la tua, le lenzuola in cui fai quasi fatica ad entrare hanno l’inconfondibile caparbia piega della lavanderia e le spesse ed elaborate tende alla finestra si fanno tirare a fatica, mentre speri che non lascino filtrare la luce del mattino.
E poi c’è silenzio.
Quel silenzio ovattato che lascia passare qualche piccola frequenza di suoni che sembrano provenire da un altro mondo. Stanze lontane anni luce, con chissà quali vite dentro.
Qui il tempo un po’ si annulla, così come lo spazio. Tante piccole ricostruzioni della nostra idea di casa, un puzzle di camere su un piano qualunque, nei pressi di una stazione, in una notte di maggio dove l’aria fredda ti si infila dentro la giacca, una di quelle sere che ti riportano subito addosso l’inverno.
Potresti essere ovunque e non avrebbe importanza: ti Senti lontano.
E questo basta perché tutto si amplifichi. Le sensazioni, le emozioni, i pensieri.
E’ come se questi non-luoghi che sono le stanze d’albergo togliessero dei filtri innescati dentro di noi.
Mentre mi asciugo i capelli penso a un frammento di una vecchia intervista che per qualche strano motivo mi è sempre rimasta in mente. Partiva con la solita domanda di routine, all’artista di turno, sullo status della sua relazione sentimentale. Non sentiva la sua ex compagna da molto, si diceva. Lui aveva risposto: non l’ho mai chiamata per mesi, anche se ho sempre pensato di farlo e poi, un giorno sono partito per New York, per lavoro, e appena sono arrivato là, dalla mia camera d’albergo l’ho chiamata.
Non c’è niente da fare.
Cerco il pigiama nella borsa, prima di disperdere il calore accumulato in quella specie di sauna in cui ho trasformato il bagno, e sono sempre più convinta che ogni tanto serva davvero un hotel.
Per fare le domande che servono e per trovare la capacità di leggere le risposte, per chiederci che cosa ci va di fare domani e per capire in che modo questo ci definisce, e soprattutto, per non lasciarci distrarre da quello che di noi abbiamo proiettato sulle pareti delle nostre case.
Ogni tanto abbiamo bisogno di un po’ di schiettezza e di sincerità.
Del bianco immobile e senza scuse di una camera d’albergo.
Basta una notte, anche solo un breve passaggio.
La nostra vita, da qui, è così lontana e così vicina.
Faraway so close.
In attesa del mattino.
Un po’ di magia
21 marzo 2010Per Natale ho ricevuto un mappamondo.
Da tanto tempo, tutti gli anni, a dicembre, in cerca di regali, io e mia mamma passiamo davanti a un bellissimo negozio di giocattoli. In realtà non è un negozio qualsiasi e forse non vende neanche giocattoli. Però porta il magico nome del libro di un filosofo del ‘600 che racconta di una città sull’equatore… e contiene un mare di oggetti intelligenti che giocano con le regole della scienza, invitandoti a conoscerla.
Entriamo.
Guardiamo le novità, ci chiamiamo a vicenda per vedere gli oggetti più strani e poi io mi inchiodo davanti a un mappamondo.
Beh, c’è da dire che ho sempre avuto una passione per i mappamondi, fin da quando ero piccola. Avete presente quelli classici, che ci hanno comprato quando andavamo a scuola, con il piedistallo e la sfera che ruota? Ecco, quello io me lo sarei portato sempre dietro, in tutti i miei viaggi e in tutti i miei traslochi. E invece è rimasto nella mia cameretta, su una mensola, in un punto strategico studiato in modo che fosse visibile sia dalla scrivania che dal letto. Ogni tanto, ancora oggi lo giro. E non è che sia una cosa così, tanto per fare. Ogni porzione di sfera ha il suo significato. Il lato di quando sono ansiosa oppure ho qualche preoccupazione è sempre stato quello dell’oceano. Tutto blu. Solo acqua e qualche piccolo puntino qua e là.
Non è affatto strano, quindi, che, entrata nel negozio, ad un certo punto lasci mia mamma gironzolare da sola per bloccarmi davanti a quell’oggetto magnetico: una sfera sospesa in aria, un piccolo mondo che sta in equilibrio su una base, senza nessun appoggio. Le regole sfruttate sono quelle del magnetismo. Come quando giocavamo con le calamite. Semplice, no? Ma spettacolare.
Arriva mia mamma e dopo averlo guardato un po’ se ne esce con una di quelle frasi che ti riportano indietro di vent’anni.
“Te lo compro.”
La commessa smonta quello in esposizione perché è l’ultimo rimasto, ci dice che è un po’ complicato metterlo in equilibrio ma che poi non si tocca più…
Così qualche giorno dopo, tornata a Milano, lo tiro fuori dalla scatola, sistemo la base su una mensola e provo a posizionarlo. Non c’è verso di farlo funzionare: appena avvicino la sfera alla base, questa l’attrae con forza e il piccolo mondo finisce spiaccicato sul metallo.
Ci provo un’infinità di volte, ma niente.
Passano vari amici da casa, il mappamondo che non sta in equilibrio diventa il gioco del momento ma nessuno riesce a capire come funziona. Mia mamma propone di tornare al negozio di giocattoli per chiedere spiegazioni.
Poi un giorno, all’improvviso, chiacchierando con A., tiriamo fuori un cavo dalla scatola e capiamo. Anche con la corrente non è semplicissimo, bisogna tenere le braccia molto ferme, avvicinare e allontanare la sfera imparando sentire l’intensità delle forze fino a trovare il punto esatto di sospensione, ma così i magneti si controllano più facilmente e dopo qualche tentativo… voilà: il mappamondo è finalmente in volo.
Mi siedo sul divano e lo guardo. Casualmente, è girato dalla parte dell’oceano e per un attimo tutta la stanza mi sembra pacificamente blu.
PARTE 2
Qualche giorno dopo il mio coinquilino torna da un week end fuori città. Appena mette piede in casa gli urlo: il mappamondo funziona! Lui si precipita in sala e lo guarda meravigliato. Non mi chiede niente. Dice solo:
Wow.
Sintetici come sempre gli americani.
Gli dico che posso anche farlo girare e do una leggera spinta alla sfera per farla ruotare. La terra comincia a girare e sempre più fiduciosa gliene do un’altra. A questo punto il mappamondo ballonzola un po’, va fuori asse e crolla sulla base.
Nooooooooo.
Ancora la perfetta sintesi del mio coinquilino.
Io non lo guardo nemmeno, fisso la piccola terra collassata sulla base di metallo e penso che non riuscirò mai a farlo stare in equilibrio di nuovo.
Mi vengono le lacrime agli occhi, avrei mille cose di cui preoccuparmi in questo momento, ho una vita buttata all’aria, eppure mi metterei a piangere solo perché quel mappamondo non vola più. Poi penso che non avrei mai dovuto girarlo, che quelle cose lì sono belle soltanto da guardare e che si devono prendere così come capitano, se il mare sta dietro si può soltanto immaginare. Alla fine però, come spesso mi succede quando i pensieri si fissano su una cosa, ne faccio un’altra che è esattamente l’opposto.
Prendo la sfera e con pazienza la riavvicino alla base. Gomiti fermi. Mi ripeto che adesso ho capito come si fa e che quindi sono capace di farlo. Mani sicure. I primi tentativi vanno a vuoto, è difficile gestire quelle forze che si contrappongono. Occhi sulla linea dell’orizzonte. E’ complicato da spiegare ma c’è un istante in cui si capisce che la distanza è giusta, i due corpi sono in contatto e il meccanismo sta per funzionare. Respiro regolare. E’ proprio quel punto lì che devi andare a cercare perché da lì nasce tutto il resto.
…
Ecco.
Il mondo torna meravigliosamente in equilibrio.
Il mio coinquilino è rimasto muto per tutta la scena. Spalanca gli occhi e ripete.
Wow.
Sorrido. Non so da quanto era che non lo facevo. Poi mi siedo di nuovo sul divano e guardo quel pezzo di plastica sospeso su una mensola.
E penso a tutti quelli che in questi mesi mi hanno chiesto che fine ha fatto invisibilia, e che fine ho fatto io. Ecco, credo di aver fatto questo. Credo di aver provato a mettere in equilibrio quello strano marchingegno a forma di mondo. Semplice e complicatissimo allo stesso tempo.
“C’è un po’ di magia” direbbe il mio amico N. Di stregonerie ovviamente non ce ne sono, l’incantesimo come sempre lo cerchiamo noi. Solo che ogni tanto ci mettiamo un po’ a trovarlo.
(Grazie ad A. per aver capito il meccanismo e, come ogni volta, per avermelo insegnato, grazie a tutti i miei amici per aver provato ad aiutarmi, ai due matti S. ed E. per aver condiviso l’incanto anche quando non ci credeva più nessuno, a mio fratello per aver progettato viaggi di soccorso a Milano e ovviamente a mia mamma per aver dato il via al gioco)
New Year
8 gennaio 2010Lo scorso gennaio io e il mio amico P. , approfittando di una copiosa nevicata e di tante chiacchiere fatte davanti a un paio di film, siamo usciti a far foto. Umore sospeso e, come da tempo ho imparato a fare, tanta voglia di indirizzare idee e suggestioni lungo una strada più ordinata. Piccola, magari insignificante, ma ordinata.
Il risultato è stato una serie di foto, tra cui questa che, adesso, esattamente un anno dopo, è andata a comporre il banner di Invisibilia.
Le strutture cicliche hanno il loro fascino…
L’idea stavolta è di Daniele Bogo (il primo nome e cognome di invisibilia?) che ha riadattato alcune di quelle foto.
E poi c’è il solito paziente lavoro del mio fratellone che arriva e mette ogni cosa al suo posto.
Buon anno, ragazzi.
Alter ego
4 gennaio 2010S: Come stai?
P: Mah. E tu?
S: Mah. Senti…
P: Sì.
S: Mi ha chiesto l’amicizia su FB un tale M.S… Amico tuo. Ma chi è?
P: Un tipo che conosco. Un po’ labile.
S: …
P: Più di noi, ecco.
10×10
14 dicembre 2009S: Finalmente va in onda. Stanotte ho sognato che dovevo riscrivere il testo sui vampiri perché era andato perso.
N: Dove si vede?
S: In qualcosa tipo 170 Paesi.
N: Ah. Cioè in tutto il mondo civilizzato… Praticamente dove c’è una ruota va in onda anche il tuo fottuto programma.