Archivio di giugno 2007

Top Ten

venerdì 29 giugno 2007

Martedì sera in radio:

- Voce ancora poco pulita e colpi di tosse affogati nella maglia (abbiate pietà di me almeno nei montaggi)

- Il solito lancio di Closer con incartamento (mai una volta che mi venga pulito eh… maledetto pezzo… Stefano la prossima volta lo lanci tu)

- La Leo-sorpresa e il dj anni ‘80

… ma soprattutto

- La top 10 di A. O. che ha riscosso un bel po’ di consensi.
E quindi eccovela qua, in versione originale e con le modifiche che abbiamo dovuto fare tra parentesi.

10. Once In A Lifetime - Talking Heads
9. California - Joni Mitchell
8. My Doorbell - White Stripes
7. Black History Month- Death From Above 1979
6. Bang Theory - World Leader Pretend
5. Losing My Religion - REM
4. Finding Out True Love Is Blind - Louis XIV
3. Doudle Bass- Gorillaz (Dirty Harry)
2. Temptation- New Order
1. Airbag - Radiohead (High & Dry)

Colori umidi

venerdì 29 giugno 2007

Ci sono sensazioni che ti si stingono addosso, un po’ come magliette bagnate. A volte sono belle e te le porti dietro volentieri, a volte invece tenti di cancellarle in tutti i modi cercando di strofinare forte. Così come il colore si è attaccato, pensi, deve anche andarsene via.
Ci sono magliette che hai sempre immaginato che avrebbero stinto, avevano colori troppo forti, vividi e brillanti. Ma non sapevi quando o come.
Stasera ti porti un po’ di tinta addosso, ma è una tonalità che non ti piace, un celestino opaco che non vorresti avere sulla pelle e con cui non è facile addormentarsi. Finisce che fa sentire opaco anche te a cui tutto quell’azzurro aveva sempre fatto girare un po’ la testa.

Abiti&Poesie

mercoledì 27 giugno 2007

Il tipo del negozio sulla spiaggia mi ha praticamente regalato un vestito e uno sconosciuto, sul treno, mi ha scritto una poesia.
E’ decisamente arrivata l’estate.
Oppure, vi siete tutti messi d’accordo per far spalancare gli occhioni alla mia amica A.
You guys are so romantic…

I-pod: The Cure, Friday I’m In Love

Trip To Italy

domenica 24 giugno 2007

Musica: I’m from Barcelona, We’re from Barcelona

…perché anche se mi sono alzata alle 6 di mattina per prendere uno scrausissimo intercity per roma (sì, esistono sempre e ci mettono qualcosa come sei ore) anche se ho rischiato un’insolazione con 40 gradi di temperatura, davanti al colosseo, anche se sono ancora dispiaciuta per giovedì sera (o delusa o arrabbiata… insomma prima o poi dovrò decidere), e anche se mio fratello dice ho fatto l’unica battuta buona in trent’anni (in realtà è solo che quelle buone se le dimentica tutte perché non combaciano con l’idea che ha di me… è una specie di memorizzazione selettiva… eheh vedi che cosa si impara all’università), insomma nonostante tutto, rivedere A. è un po’ come tornare a casa. Quale casa non lo so ma è una bella sensazione.

A.

giovedì 21 giugno 2007

A. l’ho incontrata la prima sera che sono arrivata a New York. Ancora rintontita dal jetleg (sarei andata a dormire appena disfatta la valigia) l’ho vista arrivare insieme a J. Ridevano, parlavano in un inglese che avrei iniziato a capire solo dopo qualche settimana e sembravano muoversi perfettamente a loro agio in quello strano dormitorio per studenti squattrinati.
Io non facevo altro che guardare fuori dalla finestra, le luci, il flusso continuo delle macchine, il fiume, mentre sentivo ripetere dalla “capo-piano” niente alcool, niente fumo, niente visite non autorizzate. E ogni tanto mi giravo verso G. unica persona che potevo dire di conoscere, anche se l’avevo incontrata solo il giorno prima, quando mi aveva raggiunto a Roma per prendere l’aereo.
Era gennaio, New York era ricoperta di neve e io pensavo che quando avevo fatto domanda per la borsa di studio avevo soltanto voglia di andarmene via, il più lontano possibile. E poi erano passati due anni, tra esami, colloqui, burocrazia e ritardi vari, la mia vita era cambiata di nuovo e partire non era stato così facile.
Il secondo giorno tutto sembrava un’impresa: iscriversi ai corsi, trovare un supermercato, comprare una scheda americana per il cellulare, capire come connettersi a internet. Un casino. Il terzo e il quarto idem, con i corsi che iniziavano subito. G studiava economia e aveva scelto delle materie complicatissime. Io già pensavo a come avrei potuto scrivere sceneggiature e articoli in inglese. Insomma la sera ci guardavamo e senza parole ci chiedevamo se ce l’avremmo fatta.

Non mi ricordo esattamente quando è stato ma ad un certo punto A. è venuta a parlare con noi. Forse eravamo alle prese con l’ennesimo problema (cavoli ma lo sai che ho scoperto che qui il cellulare si paga pure per ricevere? mi hanno detto che questo modulo lo devo ritirare all’ufficio studenti vattelappesca ma dove lo trovo che ci sono 300 piani???) o forse semplicemente tentavamo di preparare qualcosa da mangiare in quella enorme cucina desolata (oh non cucinava nessuno eh! ). Comunque a un certo punto lei è arrivata e da quel momento la vita a New York è diventata più semplice.
Lei sapeva tutto: dove fare fotocopie gratis, dove comprare vestiti a poco, quale piano telefonico usare per risparmiare e in generale come cavarsela in una città come quella.
Ma, soprattutto, infondeva fiducia, portava con sé un senso di serenità e gioia di vivere nonostante non avesse avuto affatto una vita facile. Situazione familiare complicata, zero soldi, si manteneva da sola all’università e a New York.
Guardavo lei, con ammirazione, e pensavo che dovevo solo darmi da fare.
Prima di tutto ho cominciato a scrivere. E quando il mio prof di sceneggiatura mi ha restituito il mio primo compito, e io non avevo il coraggio di guardarlo, mi ha detto che scrivevo meglio della maggior parte dei suoi studenti americani. Da quel momento non ho più pensato se era il caso o meno di cambiare corso.
E poi è arrivato tutto il resto.
Servivano soldi e allora via con babysitting delle gemelline francesi e lezioni di italiano, dopo sono arrivati i cortometraggi e poi addirittura la sfilata, a cui devo pero’ il merito “tecnico” a J. che mi ha insegnato a camminare sui tacchi (e soprattutto a girarsi) consumando il corridoio tra le nostre camere.
A me è sempre sembrato di fare poco per A, le correggevo i compiti di francese, le parlavo dell’Italia quando lei me lo chiedeva, le lasciavo da parte il dolce, l’ascoltavo quando aveva voglia di raccontare un po’ di sé.
A. è l’ultima persona che ho salutato andandomene da New York, che ho visto allontanarsi sempre di più dal taxi e scomparire.
Non la vedo da allora.

Venerdì arriva a Milano e io non vedo l’ora di saltarle al collo.

Come complicarsi la vita- parte 2

lunedì 18 giugno 2007

Se arrivo a tre, fermatemi.

Musica: Radiohead, Fake Plastic Trees (versione live da Painkillers). Perché a volte quello che stona è proprio bello.

Heineken Jammin’ Festival

domenica 17 giugno 2007

Avrei voluto raccontarvi le giornate dell’HJF, il caldo e i colori, le interviste metal e le battute dei ragazzi. Avrei voluto raccontarvi del concerto degli Iron Maiden e degli aerei che volano bassi dietro il palco. Dell’attesa per i Pearl Jam, della mongolfiera e del giro in barca in laguna. E invece. In dieci minuti secchiate d’acqua agitate da un turbine di vento chiudono definitivamente il discorso. E lo chiudono proprio lì, all’inizio delle esibizioni del secondo giorno.
Manca poco all’intervista dei Killers, dai C. allora rivediamo bene cosa chiedergli. Chiusi nello stand di mtv vediamo il vento alzarsi, la pioggia aumentare fino a diventare un muro d’acqua. Cominciano a volare le prime cose. E. M. e A. tentano di mettere in salvo il nostro set prima che luci e strutture cadano addosso a qualcuno. Ma non c’è modo, la tela forma una vela che si tira via tutto quello che prova ad attaccarsi. Il finestrino del camper si stacca e vola.
Se ne va tutto, la mongolfiera, gli ombrelloni, la copertura del bar.
Pochi minuti.
Poi tutto torna normale. Smette completamente di piovere. Non soffia più un alito di vento.
Esco fuori, mi avvio verso il palco con N. e C. Sul ponte che collega il backstage al retropalco c’è un piccolo esercito di sicurezza. Sembrano essere tutti lì, non si capisce se si puo’ passare o no. Non lo sanno mica neanche loro. E noi, mentre decidono, passiamo. Comincio a spaventarmi un po’, pero’. Non correre. N. mi prende per mano e ci avviciniamo. I ragazzi sono tutti sparpagliati, c’è ancora chi grida, chi piange, chi cerca le sue cose. Un via via scomposto e confuso.
Ma ce n’è uno, un ragazzo, che sta fermo. Avrà 18 anni più o meno, muscolosetto, a torso nudo, rosso per il sole. Zaino sulle spalle, una maglietta bagnata in mano. Lui se ne sta lì fermo. E trema. Trema visibilmente. Non sembra avere uno sguardo particolarmente spaventato, non è ferito, non sta cercando nessuno. Se ne sta lì e trema. Come se quel tremore fosse qualcosa di esterno al suo corpo e nemmeno se ne accorgesse. Come se fosse attaccato a qualcosa che semplicemente lo fa vibrare.
Guardiamo verso la collina e vediamo le torri piegate sul prato. Muoviamo lo sguardo da destra a sinistra. Otto torri layer. Tutte giù. Da qui in poi è un tentare di avvicinarsi e un tornare indietro, un provare a capire l’entità della cosa e il non creare intralcio ai soccorsi. Alla fine facciamo retromarcia. Per un attimo perdo gli altri. E ritorno vicino al palco. Mi sento chiamare. S. vieni via di lì? Eh? Vieni via di lì! E poi vedo A. un po’ più in là. Lo raggiungo. Beh? Lui mi indica la struttura di ferro e adesso che siamo di lato si vedono i pezzi inclinati.
Qui potrebbe venire giù tutto. Non stare intorno.
E’ impressionante.
Ma c’è anche chi continua a pensare al concerto dei my chemical romance, chi chiede del meet and greet con i linkin park (C. risponde guardando dritto, nemmeno gira lo sguardo) e chi si preoccupa del braccialetto per andare nell’area vip. Vaffanculo te e la tua area vip.
I ragazzi piano piano vengono fatti allontanare verso la collina e alla fine, in questo parco immenso, rimane solo il backstage con i giornalisti, le radio e le tv. Siamo qui e aspettiamo che qualcuno ci dica qualcosa.
Prima conferenza stampa e non si capisce niente.
Aspettiamo. Telefoniamo. Riprendiamo quello che c’è da girare, ma si fa davvero fatica. Aspettiamo di nuovo.
Il catering funziona ancora e ci troviamo lì a cenare, con colleghi e staff del festival, mentre la luce se ne va e mille pensieri arrivano. Tu immagina se.
Seconda conferenza stampa, brevissima, con Cacciari e poi tutti agli stand. Il festival è annullato.
Sembra che il vento abbia soffiato a una velocità di 150 km orari. Che cosa ci puoi fare.

Sole, caldo, camping, panini, zaini, sorrisi. Magliette metal e ciuffi emo.
E poi, il resto è un ragazzo che trema.

Musica: è finita, si torna a casa.

On The Road

giovedì 14 giugno 2007

Intervista a Vasco a Latina e poi Heineken Jammin Festival a Venezia. ON è appena finito e io non ho neache il tempo di pensare. Tanto meno di parlare, mal di gola infernale e voce che se n’è andata da due giorni. Ci risentiamo tra un po’.

Come complicarsi la vita

lunedì 11 giugno 2007


I-pod: Jeff Buckley- Lilac Wine

L’ultima Casa

domenica 10 giugno 2007

Venerdì 9 giugno. Festa di addio della Casa. Non chiuderà non vi preoccupate. E’ solo che R. la lascia e se ne va in Brasile.
Per salutare, un concerto “segreto” degli Afterhours. Solo amici, più o meno, ma a tutto assomiglia fuorché a un concerto degli After che si prestano a una versione karaoke dei loro pezzi: chi vuole salga sul palco, suoni o canti con noi. E allora dopo un primo momento di imbarazzo, ecco i primi. E via. Si divertono come pazzi. Tra una canzone e l’altra cover “strappacoglioni” come dice Manuel: Neil Young, Jeff Buckley, Radiohead, Lou Reed, Beatles. Sul palco salgono anche Pasquale De Fina, Cesare Basile, Ago e altri.
A. dovrebbe suonare due pezzi ma alla fine non va, non c’è stato tempo di provarli (ma sei bravo, potresti andare lo stesso e lo sai).
Quando Manuel mi da un bacio di saluto non posso fare a meno di pensare che quasi tutti i miei ricordi degli ultimi cinque anni sono in qualche modo legati a loro. Lavoro e vacanze, domande continue e risposte provvisorie, voglia di partire e voglia di tornare, sorrisi e buchi neri.
Di fianco a me c’è G. che rivedo dopo un sacco di tempo e che ho riconosciuto appena uscita dalla metro, tra la gente sparsa nella piazza, con i suoi caratteristici ricci neri. Come sempre, sono io che vedo lei per prima. Adesso da dove cominciamo a riassumere gli ultimi tre mesi di vita?
E poi c’è l’immancabile Tj che stasera però se ne sta lì, davanti al palco, e si sente il rumore dei pensieri che gira veloce veloce sotto un sorriso poco convinto.
Sono le due di notte e gli After ancora suonano, ridono, improvvisano e si inventano pure una cover di Britney Spears.
Beh, Manuel che canta “Hit me baby one more time…” penso che sarà difficile da dimenticare.

Alcohol

mercoledì 6 giugno 2007

Jared Eberhardt è un ragazzo americano cresciuto a Salt Lake City. Un po’ più che un ragazzo, forse, perché ha trentacinque anni.
Questa è la sua storia. Dopo il liceo vorrebbe fare studi di tipo artistico ma i genitori pensano che non gli daranno mai un lavoro e così lui si trova a dover scegliere qualcos’altro. Fin qui, niente di nuovo, lo hanno detto a tutti noi. Ce lo hanno ripetuto. Qualche volta ci hanno quasi convinto. Con quest’aria fritta non mangerai mai.
Jared si iscrive a ingegneria meccanica e nel frattempo si appassiona alla grafica e alla fotografia. Non finisce l’università (arriva all’ultimo anno) pero’ riesce ad ottenere un lavoro come designer alla Burton Snowboard e per dieci anni disegna tavole e gadget di ogni tipo: t-shirt, stivali, vestiti. Realizza anche qualche clip. Poi lo licenziano perché sembra che passi troppo tempo a progettare video invece di oggetti. E lui la prende come una svolta.
Qui c’è il suo lavoro, ha vinto il concorso di Qoob per la realizzazione del clip delle CSS ( Cansei De Ser Sexy… gruppo brasiliano un po’ pop, un po’ rock e un po’ elettronico).
Ci vuole sempre coraggio per provare a diventare come ci eravamo immaginati (ma come ci eravamo immaginati?) e magari qualche porta che si chiude da sola. Anche sbattendo. Perché noi, da soli, non la chiuderemmo mai.

Two Way Monologue

sabato 2 giugno 2007

Venerdì sera. Io e TJ (che poi è sempre Lady J, solo che questo è il suo nuovo nick… lo so fa un po’ vecchio telefilm americano, a metà tra A-Team e Magnum PI ma in qualche modo dovevo abbreviarlo) insomma io e TJ ce ne andiamo alla Casa al concerto di Sondre Lerche.
Stasera vogliamo imbottirci di musica e raccontarci il meno possibile.
Facciamo la fila per entrare. Erano secoli che non ci mettevamo in coda per entrare a un concerto. E’ quasi divertente, non sembra più neanche lontanamente lavoro, qui siamo noi e basta. Tj ha un nuovo taglio di capelli e dimostra cinque anni di meno, io sembro la ragazzina che si è truccata per apparire più grande, ma a volte hai bisogno di sentirti bella.
Entriamo, TJ mi offre da bere, e mi ritrovo in mano un drink che farò fatica a gestire. Ma anche lei è un po’ in difficoltà. Ridiamo. Due ragazzette che si divertono a giocare in un mondo di adulti. Mentre ci avviciniamo al palco ci accorgiamo che siamo circondate di ragazzi. Ma tutti uomini a questo concerto?
Si vede che avremmo voglia di raccontarci un po’ gli ultimi giorni, ma sappiamo che finiremmo nel solito impasse e allora per fortuna il concerto inizia ed è anche meglio di quanto ci aspettassimo.
Indie pop raffinato e divertente, ironico e ammiccante quando serve. E uno come Sondre Lerche non puo’ che starti simpatico. Quando dovrebbe arrivare la love song, io e TJ facciamo solo in tempo a scambiarci un unico sguardo preoccupato perché poi parte un pezzo catchy per niente zuccheroso né banale. Perfetto nella sua semplicità e leggerezza.
Beh, niente tormenti interiori qui, a quanto sembra. niente lato oscuro.
Mi torna in mente l’ultima discussione musicale con E. mentre vedo che anche i pensieri di TJ se ne stanno un po’ andando per i fatti loro.
Al momento non c’è una ragazza con me, dice Sondre dal palco. Spingo TJ, lei ride e insieme ripassiamo il decalogo della fidanzata del musicista. Forse un giorno incontreremo un avvocato o un medico, dimenticheremo chitarrine malinconiche e giri di basso, e mentre lo diciamo si avvicina un tipo e parla per tre minuti buoni. Io non prendo una parola. La musica è alta e a dir la verità non mi impegno neanche troppo. TJ nemmeno e infatti gli chiede di ripetere. Lui riparte, altri tre minuti, fa dei gesti, indica il collo. TJ sorride e lui si rimette al suo posto.
Cosa cavolo ha detto?
Non ho capito niente.
Nemmeno io.
Bene.
Niente finale da telefilm per stasera. Pero’ ci rimane sempre il tuo nick TJ.
Adesso cammina, che la macchina l’abbiamo lasciata lontana.

venerdì 1 giugno 2007

Tornando a casa sotto l’acqua pensavo che è proprio quella la sensazione con cui salto tra un brano e l’altro dell’I-Pod e cammino, considerando che le cose, a volte, vanno esattamente come devono andare. Non è tristezza, davvero. E’ sapore di pioggia.
Lentezza e armonia, certo. Ma c’è poco da fare se non guardare, con il naso all’insù, per strada e poi al sicuro, in camera, con il respiro che si condensa sul vetro.
Mi ricordo che un mio amico, quando c’era qualcosa che non tornava, se ne usciva con una frase che diceva, più o meno, così: si cerca sempre qualcosa dove non lo si dovrebbe cercare ma quel che è peggio è che lo si trova sempre dove non lo si dovrebbe trovare.
Era una delle sue citazioni preferite e forse lo è ancora.
Io le cose cerco di farle tornare ma stasera è soltanto un po’ più difficile.

Sullo stereo: The Notwist- One With The Freaks