La posta di Invisibilia.

8 marzo 2009

3123010

Succede che qualcuno finisca, per caso, su Invisibilia. Succede che mi scriva un messaggio o mi cerchi su Facebook. E succede anche, magari, che mi chieda un consiglio.
Facciamo finta che questa persona si chiami Nina (rubando il nome al personaggio di un romanzo che mi piace molto) e che questo blog provi a parlare davvero, per un giorno, a qualcuno che sta al di là di questo schermo.
Allora, via.
Nina è preoccupata per la partenza di una persona a cui tiene molto. Mi chiede se dovrebbe aspettare il suo ritorno o se forse non sarebbe meglio dimenticarla, perché in fondo non ritorna mai nessuno….

Cara Nina,
un po’ di tempo fa, in un giorno di vacanza, lento e assonnato, di quelli in cui ti domandi se non fosse stato meglio rimanere a Milano, mio fratello mi porta un disco.
E’ un disco di De André che io a dire il vero avevo sempre un po’ snobbato: un disco in genovese, avevo pensato varie volte, forse è un po’ troppo per me.
Sono buttata per terra, sul tappeto e un po’ svogliata guardo lui e poi il cd, poi di nuovo il cd e ancora lui.
“E’ uno dei dischi più belli degli anni ‘80″, dice.
Mi stiracchio sul tappeto.
“E non l’ho mica detto io eh. L’ha detto David Byrne.”
Inizio a tirarmi su mentre lui mi parla del bellissimo arrangiamento di Mauro Pagani e delle canzoni che parlano di mare, di viaggi, di sofferenze.
Quando finisce di parlare sono perfettamente seduta davanti al computer.
E’ così che scopro Creuza De Ma.
Naturalmente mi innamoro di quel disco, tanto che le prime volte lo metto a loop. E mi accorgo di una cosa.
L’album si chiude con Da Me Riva che descrive la partenza di un marinaio. E’ il canto di addio alla sua innamorata, rimasta lì sul molo, e alla sua città che si allontana.
E’ tristissimo, c’è poco da girarci intorno.
Ma… il disco, sul mio Itunes, riparte.
E così mi ritrovo immediatamente nella canzone che apre e da il titolo a tutto il lavoro: i marinai tornano a riva, riprendono contatto con la terraferma, i sapori, i colori… e ad accoglierli ci sono le voci del mercato (che all’inizio sembrano veri e propri strumenti, tanto si fondono con la musica).
Adesso, per chi è arrivato a leggere fino qui, resistendo alla tentazione di andare ad aggiornare il suo profilo Facebook, provo a spiegare perché, come si dice dalle mie parti, “l’ho fatta così lunga”.
Nina io non ti conosco, non posso consigliarti di aspettare o dimenticare ma ti posso dire che se io scegliessi di aspettare qualcuno potrei farlo soltanto così, cercando di sentire le voci di quel mercato, appena possibile, cercando di vedere quei volti che accolgono i marinai, soprattutto nei giorni in cui non spuntano barche all’orizzonte.
Proverei a respirare quell’aria che sa di sale e di viaggi.
Ecco.
Se dovessi aspettare, lo farei su quella mulattiera che porta al mare.

Tulipani

1 marzo 2009

tulipani

Ieri ero a Ferrara e stavo passeggiando con il mio amico P. per il centro. Una bellissima giornata di sole, una di quelle che piacciono anche a me che tutto sommato nella nebbia non mi ci sono mai trovata male. Ferrara è un po’ come la città in cui sono cresciuta, Lucca, con le mura che circondano il centro storico, i baluardi, i prati e tutto quello che ho visto quasi ogni giorno per 18 anni, prima che, finito il liceo, me ne andassi.
Allora. Non c’è molta gente in giro, nemmeno a fare shopping e tutto si muove lentamente.
E’ un sabato che sa di domenica.
Stiamo passeggiando per quelle piccole stradette quando spunta fuori un piccolo baracchino con dei fiori. Beh, in realtà sono solo tulipani. E c’è un cartello, sotto, scritto a mano in uno stampatello non proprio regolare con un tratto dal sapore di bic blu.
5 EURO - 5 TULIPANI BELLI.
Lo passiamo, io mi fermo e torno indietro. Lo riguardo.
Cinque tulipani.
Belli.
Ci vorrebbe sempre quella leggerezza lì, in tutte le passeggiate che ci capita di fare. E magari anche in molte delle corse.
A saperla ritrovare.
Adesso se ne sta lì appiccicata ad un cartello, ma oggi è sabato e sono lontana.
Domani, chissà.

Omini su linee bianche.

23 febbraio 2009

images1

In una famosa scuola di scrittura per spiegarti che cosa è un racconto ti dicono: immagina un omino su una linea bianca. La linea bianca è la sua vita, i suoi affetti, il suo lavoro o la sua scuola, i suoi interessi, la sua casa. Quello che mangia a colazione e i suoi vestiti preferiti.
Lui cammina tranquillo, dritto sulla sua strada. Poi all’improvviso succede qualcosa che lo butta fuori dalla linea. Lo prende e lo scaraventa su un albero. E magari l’albero inizia pure ad agitarsi spingendo il nostro povero omino di qua e di là.
Ecco quello è un racconto.
Se l’omino avesse continuato a camminare dritto sulla sua linea non ci sarebbe stato niente.
Questo per dire che quando qualcuno o qualcosa ci scaraventa sull’albero, mentre guardiamo da lassù la nostra linea bianca, sotto di noi e ci lamentiamo del vento che scuote i rami, potremmo pensare che forse non è il posto migliore del mondo ma, mal che vada avremo una storia da raccontare.

Come un’America

16 febbraio 2009

mysterious-woman-helen-hajjar.jpg

Di tutti i quadri che ho,
di tutti i quadri sei tu
la più enigmatica,
nudo di donna si, ma…
nudo di donna pero’
molto romantica,
impressionistica un po’
il rosso il giallo ed il blu
che sanno d’Africa
e vorrei
averti dipinta io
ma non cosi’,
a mano libera;
e vorrei
averti inventata io si,
pero’ non cosi’,
colori e musica.
Di tutti i sogni che ho,
dei mei miraggi sei tu
la piu improbabile,
isola persa nel blu
e riscoperta pero’
irraggiungibile
deserto barbaro che
sembra vicino e non c’ é
palmizi e nuvole;
e vorrei
averti trovata io
pero’ non cosi’
come un’ america,
e vorrei
averti scoperta io si,
pero non cosi’
come l’America

Daphne (seconda parte)

10 febbraio 2009

desert_rain_72.jpg Chi ha un briciolo di bontà trova bontà ovunque…
Chi sa cosa vuol dire, pensa Noa mentre si accorge che il benzinaio è ormai chiuso. Per fortuna ci sono due ragazzi rimasti a fare i conti che le fanno il pieno lo stesso e le offrono un caffè caldo. Poi le dicono anche che non è l’unica ad essere finita lì in una notte come quella.
Ecco. Indovinate chi c’è, buttato sul pavimento, avvolto in una coperta di lana macchiata,  semi-addormentato…
Noa sveglia il ragazzo. Lui è intontito per la febbre e taciturno ma non sembra sorpreso di vederla. La guarda come se fosse la cosa più normale del mondo, come se fosse stato evidente che lei sarebbe venuta a raccoglierlo.
Lui si trascina alla macchina, ancora bagnato, con il suo zaino “all you need is love” e si addormenta dopo pochi minuti.
Il piano di Noa è andare al magistero, svegliare un medico e la mattina mettersi al telefono per vedere di trovare questa Daphne, ma la pioggia oscura la vista, sbaglia strada e si perde. Per di più, il motore della macchina si spegne dopo poco. Lei fa in tempo ad accostare in una specie di parcheggio e si addormenta.
Come andrà a finire questa storia, uno comincia a chiedersi.
E poi pensa che forse c’è un solo modo possibile, e un’unica soluzione perché quella frase continui a girare all’interno del romanzo: nessuno deve spiegarla.
E infatti nessuno lo farà.
All’alba Noa si sveglia e si accorge che il suo passeggero è sparito. Non ha rubato niente eh… semplicemente è scomparso.
Passa una volante della polizia che aiuta Noa a far ripartire la macchina e lei torna a casa con la febbre alta ma la prima cosa che chiede al marito è di provare a rintracciare, tramite le sue conoscenze, una certa Daphne e un ragazzo irlandese atterrato il giorno prima. Poi crolla sul letto, sfinita.
Ovviamente del suo passeggero non si saprà più nulla.

Ecco, ieri sera mentre tornavo in treno da Roma guardavo fuori dal finestrino e proprio come i personaggi del libro pensavo a quel ragazzo che vaga per la Galilea alla ricerca della sua Daphne o magari ha abbandonato l’impresa e si è fermato a fare il falegname da qualche parte e in questo momento si riposa,  con la testa appoggiata sullo zaino e i suoi capelli lunghi che gli incorniciano il viso nella luce della sera.
Se si ha un briciolo di bontà si trova bontà ovunque.

Daphne (prima parte)

9 febbraio 2009

fioredeserto.jpg “Non dire notte” è un libro dello scrittore israeliano Amos Oz. Forse lo conoscerete, forse no.
C’è una città piccola e tranquilla nel deserto del Negev e c’è una coppia, lui un architetto di 60 anni e lei una professoressa di lettere di 45 con un progetto che alla fine del libro non si capisce ancora se vedrà mai la luce. Dal punto di vista della storia non succede granché e quel poco non ve lo sto a raccontare, magari vi va di leggere il libro. Le giornate per loro si concludono quasi sempre sul balcone di casa, a guardare il deserto e la luce che se ne va. Se le città nel deserto hanno un sapore, ecco allora questo libro ha quel sapore lì. Di sabbia e di soli che si vanno a spegnere all’orizzonte.
All’interno del racconto però ci sono un paio di sotto-storie. Una di queste dura poche pagine e non si capisce bene cosa ci sta a fare lì dentro, non lo capiscono nemmeno i personaggi che poi continuano a ripensarci, un po’ come noi. A viverla è lei, Noa, anche se a raccontarla è il marito Theo (i punti di vista si alternano nel libro).
La storia è più o meno questa.
Andando ad un corso di aggiornamento, Noa carica un giovane turista irlandese. E’ novembre e piove. Lui ha i capelli lunghi, un enorme zaino sulle spalle con sopra scritto “All you need is love” ed è completamente fradicio. Racconta che ha attraversato l’Irlanda in autostop sotto la pioggia per arrivare a Dublino. Da lì ha volato fino a Birmingham e da Birmingham è arrivato in Israele. Tutto senza mai dormire.
E che ci fa lì?
Sta andando a cercare una ragazza chiamata Daphne, di Liverpool, con la quale ha passato una notte, un po’ di tempo prima, e di cui sa soltanto che è andata in Galilea. Adesso è intenzionato ad andare di kibbutz in kibbutz finché non la ritroverà. Il tempo non gli manca, dice, se gli mancheranno i soldi si troverà un lavoretto. Sa fare un po’ di tutto.
C’è già da dargli del matto. Come si fa a pensare di andare a cercare una ragazza per tutta la Galilea. Mica è uno sputo.
Ma poi, per concludere, dice anche una frase che Noa non sa bene come interpretare e che poi ritornerà più avanti nel romanzo.
Dice: Se si ha un briciolo di bontà si trova bontà ovunque.
Noa lo guarda e gli sembra che abbia la febbre, poi arriva a destinazione e lo fa scendere all’ingresso della città. E’ appena entrata al corso quando decide di tornare indietro. Pensa che deve portare quel ragazzo febbricitante da un dottore, sale in macchina e torna all’ingresso della città, ma non lo trova più.
Allora si avventura per strade sconosciute, alla sua ricerca ma finisce la benzina e si infila in una stazione di servizio.

(fine prima parte)

Alberi, segreti e fango.

31 gennaio 2009

inthemoodforlovefinale2.jpg

“In tempi antichi, se qualcuno aveva un segreto non lo condivideva con nessuno… e sai come facevano?”.

“Non ho idea”.

“Andavano su una montagna, trovavano un albero, scavavano un buco nella sua corteccia e bisbigliavano il segreto al suo interno. Poi, lo ricoprivano col fango . E lasciavano il segreto lì per sempre”.

Musica che si aggira nella testa (inevitabilmente): Yumeji’s Theme

Rincorse (parte 2)

20 gennaio 2009

Allora. Siamo rimasti che nonostante i calci dati alla neve ghiacciata la macchina è ancora incastrata. Che cosa fa uno quando non sa come uscire da una situazione? La prima cosa è temporeggiare, sperando che qualcosa, nel frattempo, cambi. Questo a volte funziona con le persone, sembra… oddio io non l’ho mai pensato, per me è quasi sempre tutto dannatamente bianco o nero, nonché immutabile, però il mio amico J. dice c’è anche il grigio, anzi, che tanta parte è proprio quel grigio lì e allora io ci credo. Qui comunque è dura e se rimango ancora un po’ al freddo, dopo il febbrone di questi giorni è la fine.
La seconda cosa è guardarsi intorno. Ecco, questo lo posso fare. E infatti lo faccio. Vedo poca gente che scivola via cercando in tutti i modi di arrivare in un posto dove probabilmente non è mai voluta andare, qualche mamma nervosa corredata da bambino sovraeccitato, un anziano che azzarda un passo sulla neve, timoroso, come un animaletto che bagna la zampa in un ruscello prima di convincersi ad attraversarlo.
Poi vedo un signore sulla sessantina, non tanto lontano che cammina verso di me. Lo vedo arrivare e penso: ecco, lui ha la faccio di uno che potrebbe aiutarmi. Tranquillo, cammina deciso ma senza fretta. Spero che si fermi. Ho il tempo di pensarlo. Deve farlo. Sto guardando uno sconosciuto che in qualche modo mi dirà che è tutto a posto e che adesso non ho più la febbre e che ci vuole solo un po’ di fiducia.
Perché è mattina e sono stanca.
Perché sono stata tre giorni isolata dal mondo e sarei rimasta così.
Perché non voglio che arrivi questo week end.
Adesso sono scesa. Sbaglio un mare di cose, ma forse queste no.
Il signore arriva. E si ferma.

Il resto ha poca importanza. Serie di manovre, spinte, ruote che girano.
Conta l’ultima frase però, un po’ perché da sempre amo i finali e un po’ perché nella sua semplicità c’è tutto quello che spesso non riesco a fare. Perché mi perdo in una serie di particolari ininfluenti: dettagli, orrendi o meravigliosi, ma per lo più semplicemente inutili.
Il signore mi dice: adesso ce la fai, prendi la rincorsa e vai.
Io risalgo in macchina, metto in moto, frizione acceleratore… sento che la macchina va. Ancora un po’ incredula e contenta, mi giro e faccio per ringraziarlo, quando lui mi fa un gesto e ripete: non ti fermare, prendi la rincorsa e vai.
E io sono andata.

Rincorse (parte 1)

15 gennaio 2009

neve_grata_low.jpg

E’ venerdì mattina. Il mal di gola non se ne vuole andare ma la febbre è scesa e quindi è arrivato il momento di avventurarsi là fuori.
E’ come se da lunedì notte avessi vissuto un unico lungo giorno in cui i racconti dei libri si mescolano ai sogni che, disturbati dalla febbre si agitano per poi placarsi, come i bambini, con il silenzio della neve che continua a cadere al di là della finestra. E incanta.
E’ venerdì mattina, dicevamo e io decido che ce la posso fare, mi trasformo in un piccolo fagotto di lana e chiamo mio fratello.
Perché quando c’è un problema pratico, posso essere a Parigi, a Londra o a New York, ma lo chiamo. E non dico tanto per dire. Lo chiamo.
Problema: la macchina sarà sepolta dalla neve ormai ghiacciata. Partirà, non partirà, che faccio se non si apre nemmeno lo sportello…
Soluzione: chiamare il fratellone.
Infatti mi tranquillizzo. Anche se, pensandoci poi, probabilmente non sarei mai riuscita a fare nessuna delle cose che mi ha detto. Ma alla fine è quello il compito dei fratelli maggiori. Farti sentire che, anche se non capisci un tubo, ce la puoi fare lo stesso.
Scendo.
Lo sportello della macchina si apre ma il problema è che c’è un mare di neve ghiacciata accumulata intorno alle ruote, come se qualcuno le avesse volute incorniciare.
Che bel pensiero.
Con cosa la tolgo che non ho niente?
E allora faccio la cosa più divertente che mi sia mai capitata di fare una mattina qualunque andando al lavoro.
La prendo a calci.
Prendo a calci la neve ghiacciata.
Ed è fantastico. Funziona, per di più.
A volte è un po’ più faticoso, ma… è bellissimo.
Dovremmo farlo più spesso. Mettere da parte un po’ di neve, non proprio fresca, altrimenti fa poca resistenza e poi prenderla a calci. Ecco ci dovrebbero essere sempre dei posti dove tu vai e prendi a calci la neve. Perché non è come tirare pugni a un sacco in una palestra: il sacco rimane lì, ma la neve si disintegra. I pezzi di ghiaccio li distruggi e dopo non ci sono più.
Li distruggi e poi non ci sono più.

(fine prima parte)

Bianco e nero.

8 gennaio 2009

tavolozza_bn.jpeg

Gill entra in camera con la sua solita aria allegra.
- Allora malatina ci guardiamo un film?
- Scandito dai colpi di tosse? Perché no…
- Guarda, ne ho portati un po’…
Gill tira fuori una decina di dvd che pesca in ordine sparso dalla borsa, un gran casino di titoli masterizzati quasi a caso, dai film d’autore agli evidenti blockbuster.
Do un’occhiata, ma sono troppo stanca anche per scegliere.
- Decidi tu.
Gill li mescola come se avesse davanti un mazzo di carte.
- Questo è in bianco nero, sarà un film intelligente… mmm… mi sa che l’ha detto qualcun’altro…
- Gill…
- Sì?
- A volte un film in bianco e nero è semplicemente un film senza colori.
- E’ vero. L’hai detto tu, questo?
- Beh sì.
- Bene.
Si rimette a trafficare. Poi chiede:
- Commedia hollywoodiana allora? Happy ending?
- E vissero felici e contenti.
Gill sorride soddisfatta e pesca un dvd. Lo mette dentro il lettore, senza dire niente. Poi torna verso di me. A volte c’è più onestà in un racconto semplice e senza grandi pretese che in un uno che si ostina a girare per tentare di dire qualcosa ma alla fine, banalmente, non riesce a dire niente.
- Passami un cuscino.
- Tieni.
Tossisco.
Gill mi guarda un po’ preoccupata e poi dice, con la sua solita leggerezza:
- Non morirai.
Rido.
- Lo so.
Inizia il film.

La neve e l’anello magico.

6 gennaio 2009

anello.jpg

La carta del pacchetto vola via in un attimo.
Sono impaziente con i regali.
Anzi, ripensandoci sono impaziente con tutto, ma con i regali in particolare.
La sorprese le brucio in un attimo.
Guardo TJ e spalanco gli occhi perché è bellissimo.
- E’ un anello- dice lei- Quando l’ho visto ho pensato subito a te. C’è un viso raffigurato sopra…
Da quando ho perso quello che mi aveva regalato mia madre non ne ho più portati, in una lotta persa in partenza contro l’affetto che riversiamo sugli oggetti. Sono le persone a cui vogliamo bene, non i pezzi di metallo, ma quando le persone non sono lì, vicino a te, cambia tutto.
Lo guardo bene e mi piace ancora di più, con quei tratti femminili appena accennati. Le sorrido.
- Non è solo un anello. E’ un anello magico. - le dico io.
- Magico?
- Sì- rispondo sicura.
- E quale sarebbe la magia?
Glielo dico, piano. Lei allora si avvicina e sfrega il dito sulla superficie dell’anello, tre volte, come le ho detto.
- Ecco.
Poi usciamo dalla macchina, con le scarpette da tango nella borsa e ci dirigiamo verso la musica… Entriamo e ordiniamo due bicchieri di vino, non balliamo da un po’ e forse ci siamo perse un po’ d’entusiasmo per strada.
Ci sono tutti. Il mio maestro passa e mi scompiglia i capelli mentre salutiamo amici e compagni di corso. Arriva E., le chiedo come va e poi finiamo a parlare dell’anello. E’ magico, le spiego io. Ah si? risponde lei e lo sfrega subito tre volte. C’è anche S. e la scena si ripete, come va e anello magico.
E’ un susseguirsi di magie. Tango e stregonerie…
Ore dopo, la neve ci aspetta all’uscita.
Molti continueranno la serata, io mi addentro in una città bianca per accompagnare TJ a casa e mentre lei scende, assonnata, dalla macchina guardo il mio anello. Non lo sanno, gli altri, che la magia sarà diversa per ognuno di loro. Perché ognuno ha negli occhi i suoi di sogni.
Buonanotte, sorellina, dormi bene.
Io rimango sveglia, forse stasera si può ballare ancora un po’ .

Colpi di pistola.

4 gennaio 2009

… Sa, è molto bella l’immagine di un proiettile in corsa : è la metafora esatta del destino. Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino ? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere ...

I-tunes: Amari- 30 anni che non ci vediamo

Last Show

31 dicembre 2008

Ultimo dell’anno in quella bolla spazio-temporale dello Chalet di Radio2000 in Piazza Grande a Lucca. Se capitate da quelle parti e sopravvivete ai botti, saltate la gente accartocciata davanti al palco e passateci a trovare.

Diretta dalle 22.

92,2 - 99,2 - 99,6 - 107,4 FM (Lucca, Pisa, Livorno, Versilia, Garfagnana e fin dove arriva :-))

http://www.streamsolution.it/onair/radio2000.asx

Tè sul mare con Stephen Wood.

28 dicembre 2008

mare_27_12_08.jpg

-Da che parte andiamo?
- Di là
Sono le 4 del pomeriggio di un 27 dicembre che è arrivato a portarsi via un po’ di giorni di festa, in cui ho affogato pause forzate e auguri senza senso.
Il cielo è limpidissimo e l’aria è fredda. Dietro di noi le montagne con la neve, davanti a noi il mare. Affondiamo nella sabbia ad ogni passo e ci allontaniamo dal faro. Chissà se i guardiani esistono ancora, chissà se c’è ancora qualcuno che va lì dentro, ogni tanto.
La luce è incredibile e cambia ogni volta che rialziamo la testa.
Parliamo di Milano, di me, di lui, di musica, dei suoi nuovi pezzi, di quanto è finta la realtà e di quanto è vera la finzione.
Quando decidiamo di tornare indietro le montagne sono blu e le nuvole rosa.
Il sole sta tramontando.
Tiro fuori il cellulare. E’ banale la foto, è banale il sole che scompare sul mare, è banale la spiaggia, sono banali le orme delle nostre scarpe. Centinaia di cartoline. Glielo dico.
- Se ci fanno le cartoline forse un motivo c’è- dice Stephen Wood- forse il bello è banale.
Forse.
D’altra parte i nostri rari incontri hanno sempre un discreto impianto luci.
- Andiamo al faro?
Risaliamo il viottolino, raggiungiamo la macchina e ci avviamo verso il faro.
L’estate scorsa eravamo lì, in uno dei tanti locali della costa, a prendere decisioni per il futuro. Musica e macchine ovunque.
Adesso è deserto.
Silenzioso.
Costeggiamo un muro infinito pieno di tag. Sthephen Wood le conosce quasi tutte. Chissà quante volte le ha lette.
-Ce n’è una che mi è sempre piaciuta- dice.
E la troviamo, un po’ scolorita, quasi nascosta da altre più recenti.
Si fa un po’ fatica ma si legge ancora: “Avrei voluto soltanto amarti, nient’altro”.
- Se ci pensi è vero: a volte vorresti soltanto volergli bene. Ma non puoi- conclude, con leggerezza, esattamente come quella frase.

Arriviamo al faro, che è chiuso e recintato. Come era logico che fosse.
In realtà non è poi neanche questo granché: una torretta di cemento bianco.
Però è acceso.
E ci accorgiamo che ormai è buio. Cambiamo cd, si torna indietro.
Il tè non l’abbiamo preso, abbiamo preso il mare.

Autoradio: Postal Service- Give Up