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Cercasi F. disperatamente.

mercoledì 29 ottobre 2008

FACEBOOK, 01:00 am

ION: Finalmente ho trovato F.
S: Davvero? Come?
ION: Quando mi incaponisco…
S: Non sai quante volte mi sono chiesta dov’era finito… Chissà com’è adesso. E dov’è?
ION: Aspetta, ho trovato il link di un myspace, dovrebbe essere lui. Però gli ho scritto e non mi ha risposto.
S: Ah.

Magari non è lui.
ION: Forse no.
S: Sai che ti dico?
ION: Cosa?
S: Che non dovremmo cercarlo più.
ION: Perché?
S: Perché per me F. continua ad essere la persona che mi ha accompagnato in stazione, all’alba, tanti anni fa.
Quindi preferisco immaginarlo su qualche spiaggia esotica a inventarsi una fabbrica di ombrellini da cocktail.
ION: Forse hai ragione tu, è meglio “non cercare” per non guastarsi i ricordi… Ma chi lo sa, ogni tanto magari i ricordi hanno bisogno di essere guastati.
O magari erano meno belli di come pensavamo… un po’ come capita per certi film che avevi visto mille anni fa e ti sembravano una figata pazzesca.
S: Già. Ma quel treno lì dovevo prenderlo. E’ quindi ho bisogno che F. rimanga il solito F. di sempre. Che si porta via tutta la malinconia di una piccola stazione dove tutti aspettano che accada qualcosa e invece non accade niente. Ho bisogno che faccia la sua solita battuta.
ION:Beh, F. a questo punto ti saluterebbe con “ciao, bella gnocca” e farebbe crollare tutta la poesia.
S: E’ vero.
ION: Che in fondo è quello che vogliamo.
S: Esatto.
ION: Allora adesso possiamo andare a dormire.
S: Sì.

I-tunes: Jeff Buckley- Last Goodbye (quanto tempo).

A proposito…

lunedì 27 ottobre 2008

Ecco dove sono finite parti delle mie notti insonni…  

Mtv The Most - Ligabue, stasera (caspita me l’ero dimenticato) ore 19, MTV

Ultrasounds, sabato 1 novembre ore 19, MTV

Io mi terrei la luna

venerdì 24 ottobre 2008

Il display del telefono si illumina proprio mentre sto per chiudere gli occhi.
“Sei sveglia”.
Cavolo, la punteggiatura.
G., vuoi mettere una buona volta la punteggiatura.
Scrivo senza neanche guardare e poi conto fino a tre.
Riesco a rispondere a metà del primo squillo.
Odio i rumori nella notte. Un bisbiglio diventa un frastuono.
“Ciao… non dormivi vero?”.
E lo vedo subito, dall’altra parte, il sorriso stropicciato dalla stanchezza e dall’indecisione.
“No, no”. E in effetti è vero. Ho dormito talmente poco nelle ultime due settimane che dovrei essere già nel mondo dei sogni e invece non è mai immediato.
Ma questo G. lo sa bene. E infatti, come sempre, è lei che me lo dice. E aggiunge:
“Quella storia della felicità non funziona”.
“Quale storia?”
“Quella che quando ti sembra di essere felice mangi bene, dormi meglio e ti senti in pace con l’universo.”
“Beh, di solito se pensi a qualcosa di bello è più facile addormentarsi no?” Non ne sono convinta a dire la verità pero’ me lo diceva sempre mia mamma, da piccola, quando capitava che non riuscissi a dormire. “Pensa a qualcosa di bello” diceva. Chissà perché uno, dei miliardi di cose che gli dicono quando è piccolo, si va a ricordare una roba così. E poi magari la va anche a dire a qualcun’altro.
“Non è mica vero. Che succede se è troppo bello. Ti porta via, ti porta da un’altra parte. E non dormi più”
Caspita. Stavolta è irraggiungibile.
“Quindi?”
“Quindi va reso tutto più normale, forse”.
“Ok, hai la risposta. Sei a posto”
“Mica tanto. Dimmi come faccio a renderlo normale. Mi serve un sogno più ordinario, uno di quelli, appunto, che ti fanno dormire.”
Cavoli. Mi hanno chiesto di inventare sms, cartoline, biglietti, e-mail, telefonate. Di tutto. Ma riscrivere i sogni proprio no. Tra l’altro avrei già un bel da fare con i miei.
Però siamo qua. Sono le due e mezzo di notte e anche stasera dormirò meno di sei ore.
Ripenso alla conversazione con ETR di oggi pomeriggio. E il caffè macchiato mi sembra una buona soluzione. Lì la partenza era un po’ diversa. L’arrivo pero’ mi sembra lo stesso.
E’ bello lasciarsi affascinare. Gli orizzonti sono sempre sconfinati, anche quando in realtà finiscono dietro l’angolo. E ti sembra sempre di parlare della luna, e di non poterne più fare a meno, anche quando non ti accorgi che stai semplicemente descrivendo un caffè con latte, che magari si è pure un po’ rovesciato. E allora fregatene, gioca, scherza, ridi. Parla di notti e cieli stellati. Tanto il caffè, anche nei bar più lenti, finisce sempre per arrivare.
Ma come si fa ad avere tutta quella fretta.
Dove devi andare G.
“Dove sei?”
“Sto tornando a casa”
“Passa di qui, ci mangiamo il budino alla cioccolata.”
“Cioccolata?”
“Si”


“Dai, ok”
Non è difficile convincerla. Si vede, che non ha proprio voglia di dormire.
Finisco per sorridere anch’io, mentre lascio le coperte e mi infilo un maglione.
Pazienza, domani, farò ancora un po’ più di fatica ad alzarmi.
Però adesso non mi pesa.
Forse perché se fossi in lei, se fossi G, io, mi terrei la luna.

Musica: The Smiths- This Charming Man

Come nei film

lunedì 20 ottobre 2008

titolicoda.jpg

Ogni tanto qualcuno mi chiede che fine hanno fatto i personaggi di invisibilia. Dov’è finito John F, come sta TJ, quanto lavora ETR500.
La cosa buffa è che la maggior parte delle persone non sa nemmeno chi sono.
E probabilmente non lo saprà mai.
Allora, questa sera che una febbriciattola mi sta portando via, ho deciso di fare come nei film. Quando alla fine, una voce fuori campo va avanti nel tempo e vi racconta quello che non potreste mai sapere.
John F. ovviamente continua a suonare e, anche se non ci vediamo mai, sa essere vicino. So che la canzone di Mullholland A. non la ascolterò mai più, ma è comunque bello pensare che da qualche parte, su un cd, un computer o nella testa di qualcuno, continui ad esistere.
Per tutte le fanciulle che si sono già innamorate: è fidanzato e assolutamente fedele! Però è un lettore silente di invisibilia, quindi potete sempre provare a lasciare un messaggio…
TJ è appena tornata da una faticosa trasferta di lavoro. Inutile dire che mi è mancata da morire. Domani sera festeggeremo alla Gotan Night. Ah già, forse non sapevate che sta imparando a ballare il tango.
ETR500 continua a salire su un treno, appena può. Poco importa dove è diretto, quello che conta è che sopra si possa prendere un caffè. Ogni volta mi sorprendo pensando quanto siamo profondamente diversi e incredibilmente simili. Ah, la vecchia uno purtroppo non ce l’ha più. E’ stata finalmente sostituita, dopo anni di onorata carriera, con una panda a gas. Ma passo oltre perché altrimenti divento malinconica.
Questi fottuti brividi di febbre…
Il mio amico matematico potrebbe di nuovo trasferirsi a Milano, come tanto tempo fa, quando io avevo lasciato tutti a bocca aperta con il mio grande tiro “chiavi in buca”.
Stephen Wood invece lo incontro ogni tanto su FB o su Skype, non mi ha più chiesto passaggi, forse per paura di finire a Torino, questa volta… Però sono felice di sapere che si aggira in questi paraggi. Mi ricorda che alla fine, non importa cosa finiamo a fare o dove finiamo a vivere, noi saremo sempre quelli di Music Match Live.
Le insostituibili Ze, Kaa, Hj e V.continuano a essere il mio specchio. Anche se i tempi dell’università sono ormai andati, con le lunghe notti nella casa di Siena e i progetti che si perdono sulla discesa di piazza del campo, qualcosa stavolta è rimasto. Qualche idea a dire la verità si è pure realizzata anche se non avrà mai lo stesso sapore di come l’avevi sognata. Della Ze vorrei raccontarvi di più, ma su invisibilia ormai lo sapete, alla fine non si parla mai di niente. Sta cambiando la sua vita e anche se lei non lo sa, in qualche modo sta cambiando anche la nostra.
A.continua ad essere in ogni mia risata e soprattuto in ogni mio caffè rovesciato mentre a. chissà se legge ancora. L’omonima A. newyorkese dico che l’andrò a trovare ogni mese, lei mi aspetta… e a proposito di attese, gli Zita Swoon non li ho mai più incontrati ma li ha visti il mio amico FDP e me lo ha scritto nell’ultima mail. La zia R. manca e continuerà a mancare, il bar S. pero’ è sempre lì, con gli occhi aperti sul mare, anche d’inverno, ed è un po’ come se ci fosse anche lei.
Sono passati mesi e finalmente ION ha ricominciato a scrivere il suo blog (anche se dovrebbe essere un po’ più costante). E’ con lui che chiudo il riepilogo, lanciando i titoli di coda, perché se non ci fosse stato la stanzadigomez probabilmente non ci sarebbe mai stato nemmeno Invisibilia.

Ops manca la musica.

Soundtrack (grazie a D. per il cd) : Death Cab For Cutie-Your New Twin Sized Bed

P.s. Sì ho cambiato, era partita la traccia sbagliata, saltellando sullo stereo, con l’effetto dei migliori cinemini di provincia.

Per colpa di mio fratello devo trovare un titolo anche quando non c’è.

sabato 18 ottobre 2008

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Il rumore attutito della porta di casa che si chiude mi ricorda da sempre i rientri notturni.
Accosto piano mentre tolgo i tacchi per non svegliare la mia coinquilina. E’ un rito. La luce è spenta nella sua camera, dormirà già da un pezzo.
Sono troppo stanca anche per riuscire ad andare a letto. Rimarrei qui, con gli occhi che si posano a caso sul disordine che mi circonda, mentre il tempo passa.
Sono finite tre settimane impossibili e io ci sono ancora. Credo.
Ora devo disintossicarmi.
Dalle canzoni tristi e dalle frasi che non tornano.
E adesso che sei dovunque sei, chissà se ti arriva il mio pensiero…

Sullo stereo (che non salta più): Coldplay- Death And All His Friends

Let’s just imitate the real until we find a better one.

giovedì 16 ottobre 2008

Capita che un mercoledì tra tanti vada a finire così. Con una serie di carte buone che ritrovi in mano per caso. Allora, già che ci sei, te le giochi.

Sullo stereo (che salta, porca miseria) : Notwist- Good lies 

Multiple Choice.

martedì 14 ottobre 2008

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Certe sere si trasformano in domande a risposta multipla. A mettere una crocetta poi sono buoni tutti, ma la parte divertente è sempre perdersi tra le possibilità.
Perché c’è sempre quella che “potrebbe anche essere”.
E’ quasi mezzanotte quando mi giro, afferro le scarpe e corro per le scale.
Un attimo prima di salire in macchina guardo sù.
Chissà se si vede la luna anche da qui.

Musica (ovunque): Coldplay- Viva La Vida

E non sa di niente ma di te

domenica 5 ottobre 2008

2 ottobre 2008

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Parigi è sempre ossigeno. Anche se soltanto per un giorno. Anche se fa freddo. Anche se inizia a piovere mentre cerco un modo per arrivare velocemente in areoporto e, ormai completamente zuppa, vedo passare l’autobus che anni fa mi portava a casa.
Perché non importa se ci sono le nuovole o il sole, se è aprile o novembre: la illumina sempre quella luce nordica che apre l’orizzonte. E non è speciale ma è per te.

Nell’ipod (bagnato) la voce di M  : Afterhours- Musa Di Nessuno

Preludio.

martedì 30 settembre 2008

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La mia amica G. chiama sempre quando avrei qualcosa da dirle.
Ma alla fine non le racconto mai niente perché è lei piuttosto a raccontarmi di sé. Quando chiudo la telefonata però è come se le avessi detto tutto. Anche se non mi è uscita una parola. Come stasera che, all’improvviso, mentre sto rientrando, di notte, a casa, dopo una giornata infinita sul set di U., mi riporta su questa terra con una dichiarazione banale quanto problematica: sono innamorata.
Si potrebbe pensare che le complicazioni arrivino come sempre dall’essere o meno corrisposti, dalla lontanza, dai dubbi di compatibilità.
Invece no.
Il problema di G. è un altro.
Il problema è che è di nuovo innamorata.
“Ti rendi conto? Non faccio altro che innamorarmi. Mi innamoro di continuo. E’ così ormai da due anni.”
Mi scappa una risata, ma so benissimo che lei è dall’altra parte, seria seria ad aspettare una risposta che sa di non poter avere.
“Beh, dopo tutto è bello innamorarsi, no? C’è chi farebbe carte false.”
Anch’io le avrei fatte una volta. Tanto tempo fa. Credevo che non mi sarebbe mai più successo e ne ero talmente certa che mi irritava qualsiasi forma di sicurezza del contrario. Una sera ero stata costretta a scriverlo su un foglio e consegnarlo ad una mia amica. Chissà se ce l’ha ancora, da qualche parte. Serissima, lei mi ci aveva fatto anche mettere la data: questo te lo ridò fra un po’. Eravamo sedute sugli scalini in una piazza di Prato, in un’estate che non se ne andava più.
“Sì sì… forse una volta avrei dato qualsiasi cosa… Però adesso è diventato impossibile. E’ che continuo a perdere la testa.” E mi racconta dell’ultimo ragazzo che ha incontrato, non lo conosce nemmeno, ma lo sento dalla voce, che già non capisce più niente. E’ bello sentire tutta quell’emozione che straripa nelle pause tra una parola e l’altra e nei sorrisi che non posso vedere.
Non faccio fatica a crederle. Le sue infatuazioni sono tanto sincere quando destinate a evaporare, inevitabilmente, così some si sono materializzate. G. non si innamora delle persone ma di una loro caratteristica. Una volta è la voce profonda di un cantante, una volta l’aria trasognata di uno studente pieno di speranze oppure il piglio sicuro e deciso di un avvocato in carriera o i movimenti sensuali di un ballerino. Vive le loro vite per un po’ e poi le abbandona, naturalmente, senza nemmeno accorgersene. Scivola via, così. Forse, alla fine, è solo un modo per non dover vivere la sua di vita.
G. è attenta e ad un certo punto si accorge che sono finita da un’altra parte.
Allora se ne esce con una di quelle intuizioni che solo lei può avere.
“Ti ricordi quando abbiamo girato una giornata alla ricerca di quel pezzo di musica classica che ti piaceva tanto? Oggi ho ritrovato il cd. Pensavo di averlo perso nel trasloco. Lo so che non c’entra niente ma ti ho pensato.”
Certo che me lo ricordo. Non sapevamo nemmeno che pezzo fosse. L’avevamo ascoltato per caso in un film. E io ero rimasta incantata. All’inizio avevamo provato a canticchiare la melodia, poi avevamo chiesto aiuto a genitori, insegnanti di piano, commessi dei negozi di dischi. E alla fine l’avevamo trovato.
Saranno passati dieci anni. E ancora adesso quando l’ascolto mi fa girare la testa.
“Davvero?”. Vorrei dire un’altra cosa. Ma non ce la faccio.
“Dai, ho capito, ti lascio riposare. Ci sentiamo domani. Dormi bene… “, si arrende, ma sempre con quell’aria leggera di chi già pensa a quando lo rivedrà.
Buonanotte.
Spengo il telefono. Sono già nel letto, gli occhi ormai ridotti a una fessura, quando penso che avrei potuto dirle che quel pezzo oggi l’ho sentito accennare su una chitarra, con la luce che se ne andava via troppo velocemente, in mezzo a una terrazza sbucata nel nulla. Il tetto del mondo, per un attimo.
Domani, magari, glielo racconterò e tutto sembrerà un po’ meno incredibile. Ma stasera si sarebbe innamorata di nuovo. Anche senza poterselo permettere. Lo so. Mentre mi tiro fino al naso la coperta, penso che la mia testa non sarebbe stata abbastanza ferma per tutte e due, stasera. Sono troppo stanca. E dopotutto è bello così.

Nella testa: Johann Sebastian Bach- Suite per violoncello n.1- Preludio

Finali, cloro, estati.

mercoledì 24 settembre 2008

Questo post è per i film usciti male. Per i vestiti sbagliati, le musiche sbagliate, i momenti sbagliati. I passi sbagliati. E’ per le frasi ormai sbavate di dialoghi già sbiaditi.
E per l’improvvisa, incomprensibile, voglia di cantare sopra un finale che sa di cloro.

In radio (sbagliando strada): Kid Rock- All Summer Long

Electropausa

martedì 23 settembre 2008

dd1698_milano_navigli_notte.jpg Sono quasi le tre quando entro in casa di TJ. Anche qui sui navigli, tra strette strade di gin lemon e daiquiri, è un lunedì che si spegne senza clamori.
E’ guardando giù, in cerca di briciole di sonno, che soffio via fino all’ultimo pensiero. Perché qualsiasi cosa dirò ,qui, andrà bene comunque.
Non sarà irragionevole o inutile.
Almeno fino a quando non sarà davvero ora di tornare a casa, con il rumore delle macchine che puliscono le strade nelle orecchie e l’impronta del tacco di una ballerina troppo intraprendente sui piedi.
Tra meno di quattro ore suonerà la sveglia.

Musica: Gotan Project- Queremos Paz

Capitolo 4: Safari

domenica 21 settembre 2008

Il silenzio è una di quelle cose tipo i tramonti. Non si sa mai come descriverli.
Cominci, pieno di volontà, con il tuo bagaglio di aggettivi ma poi lasci perdere.
E semplicemente fai quello che faresti davanti a un tramonto.
Cioè: stare lì.
Sei in mezzo alla savana, a due passi dall’equatore, chiuso in una tenda ad aspettare che faccia giorno mentre speri che quel silenzio duri abbastanza per potertelo ricordare.
Sei lì ad attendere il primo rumore che se lo porterà via.
Ed è in un punto imprecisato di quell’attesa che ti addormenti.

Tutto è iniziato meno di 24 ore prima con quelle sveglie che suonano all’alba e ti riportano troppo bruscamente in qualsiasi mondo tu abbia lasciato prima di addormentarti.
Sbatto le ciglia un po’ di volte rendendo intermittente l’immagine quieta e perentoria di uno zaino chiuso, appoggiato sul pavimento scuro e sorvegliato da un gieco incollato alla parete a pochi metri di distanza .
Si parte.
La jeep stavolta è un po’ più moderna. Ci infiliamo dentro e crolliamo più o meno tutti addormentati. Ma il sonno dura pochissimo. Le buche di cui è tappezzata quel rigagnolo di polvere chiamata strada ci sballottano da una parte all’altra. A volte ci dobbiamo quasi fermare e accostare il più possibile al ciglio per evitare di lasciare le gomme in quei piccoli crateri.
Siamo di nuovo in mezzo al nulla. Un nulla interrotto sporadicamente da qualche villaggio, che spunta all’improvviso, senza un perché, e poi scompare, inghiottito dalla polvere.
Quei grumi di case di terra e foglie sembrano tanti piccoli asili dispersi in una terra sempre più rossa. Gli unici abitanti, a quest’ora, sono bambini che al rumore della nostra jeep si precipitano in strada in cerca di caramelle.
Distribuiamo tutte quelle che abbiamo ma ci rendiamo subito conto che non sono abbastanza. Sono piccoli eserciti lasciati davanti alle loro case, i più grandi tengono in braccio o per mano i fratellini, come è stato insegnato loro, ma quando si tratta di afferrare una caramella si dimenticano di qualsiasi regola. Chi ha il braccio più lungo vince. Nonostante i nostri tentativi di distribuire equamente.
La scena si ripete varie volte fino a quando anche i villaggi isolati spariscono e allora non ci rimane altro che fissare il paesaggio più o meno identico che ci scorre davanti.
E’ mattina inoltrata quando arriviamo alla nostra prima meta. E’ una grande riserva privata, vicino al parco dell Tsavo.
Qui, ci spiega la nostra guida, sono permessi i fuori pista e a differenza del parco non incontreremo nessuno.Infatti siamo i soli ad addentrarci tra la vegetazione che si stende davanti a noi.
Apriamo il tetto della jeep.
Ci siamo.

All’inizio non è così semplice vedere gli animali. Neanche quelli grandi. I loro colori sono esattamente quelli della savana ed è difficile staccare in qualche modo le loro figure dallo sfondo.
Io faccio davvero fatica, ma per fortuna c’è chi è più esperto di me.
I primi che vedo, tra gli alberi, sono degli elefanti.
E la prima impressione è la più stupida.
Sono enormi.
Poi arrivano i dettagli: la rugosità della pelle, le pieghe delle orecchie, gli occhioni un po’ malinconici, le zampe piatte, l’infinita proboscide arricciata che strappa foglie a destra e a sinistra.
La mattinata prosegue con avvistamenti di uccelli e altri piccoli animali, tra cui le numerossissime antilopi d’acqua, una specie di bambi con il fondoschiena bianco, facile attacco dei predatori. Sono un po’ il big mac della savana, scherza A. Le povere erbivore, infatti, passano gran parte della loro vita a tentare di salvarsi la pelle correndo più veloce dell’inseguitore.
E’ quando stiamo per uscire, che si prepara di fianco la noi la scena che più ci ricorderà questo safari. Atroce come lo è la natura.
A pochi metri dalla nostra jeep, ci sono due leoni che hanno appena cacciato una preda. Uno di loro la addenta, con la bocca rossa di sangue, ma poi si ferma. E ci guarda. Fisso, immobile. Per un’eternità.
Spegniamo il motore e continuiamo ad osservare quel muso sporco tra i cespugli e quei due occhi che non accennano a spostarsi di un millimetro.
Nessun rumore intorno a noi.
Ad un certo punto, all’improvviso, il muso sparisce e ci sembra che ne compaia un altro, è semicoperto dai cespugli e non vediamo bene.
Ma all’improvviso sentiamo l’unico rumore di tutta la scena.
A interrompere i respiri e i pensieri.
E’ un ringhio.
Ed è subito seguito da una zampata del primo leone che si avventa sul secondo.
Evidentemente non era arrivato il suo turno per mangiare. Ci sono delle regole da seguire e la nostra presenza non le rompe.
A questo punto rimane un gioco di attese: i leoni sorvegliano la preda aspettando, infastiditi, che togliamo il disturbo mentre noi aspettiamo che loro emergano di nuovo dai cespugli.
Ma questo non è uno zoo, noi siamo solo degli intrusi e quindi riaccendiamo il motore della jeep e decidiamo di andare.
E’ da poco passato mezzogiorno e la giornata di oggi è infinita. Rimbocchiamo la strada principale portandoci dietro l’immagine di quei due leoni. Se ne aggiungeranno molte altre in quei giorni, ma quella non ce la dimenticheremo più. Usciamo dalla riserva. Direzione: Parco dello Tsavo.

(continua)

Capitolo 3: Granchi in fuga e giraffe d’ebano.

martedì 2 settembre 2008

Jambo.
Ciao.
Alle nostre costole, durante le escursioni, si materializza spesso un set di ragazzini africani. Con un’organizzazione perfetta si dividono tra di noi, accompagnandoci ad ogni passo e cercando di costruire la conversazione su quelle parole di italiano consumate da anni di esercizio con romani intraprendenti e milanesi in relax. La loro insistenza mi irrigidisce un po’, loro lo percepiscono immediatamente e finiscono per andare ad attorniare A. che, più predisposto alle chiacchiere sarà, secondo la loro esperienza, più propenso alle mance.
Non hanno niente da vendere, a parte la loro terra.
Ma hanno imparato perfettamente quello che viaggiatori come noi vanno cercando.
E così quando ci fermiamo a guardare un granchietto che si muove velocemente sulla sabbia si fanno in quattro per permetterci di fotografarlo e appena lui sparisce nel tipico buchetto, loro non esitano un secondo e si mettono a scavare.
Figurati se lo ripescano, penso mentre le loro mani minute e rapide rimuovono sabbia alla velocità della luce, formando una buca enorme rispetto all’originale e sempre più profonda, alla ricerca dell’animaletto nascosto.
Non solo lo trovano, ma riescono anche a prenderlo e portarlo davanti alle nostre macchine fotografiche.
Pochi giorni dopo, ragazzi come loro avrebbero fatto lo stesso con un pesce palla, in un atollo dell’oceano indiano, destinandolo però alla morte, dopo averlo tolto dall’acqua per mostrarlo in giro.
Non hanno niente da vendere, a parte la loro terra.
E nella loro forma di commercio sanno essere ingenuamente spietati.
Gli adulti invece qualcosa ce l’hanno. Ed è identico per tutti. Standardizzati souvenir per turisti pieni di colori e, spesso, anche di polvere.
Arrivano come possono, quando e dove meno te l’aspetti, su una spiaggia deserta o in mezzo al mare. In bicicletta, a piedi, in barca. Con le loro ceste gialle e la loro africa di ebano.
La contrattazione inizia non appena ti avvicini.
Ti chiedono 10 euro, tu gliene offri 5, chiudi a 7 e loro a 3 ti avrebbero già fregato.
Ma non esistono truffe, esistono solo due mondi. E due prezzi. Noi ci portiamo dietro inevitabilemente il nostro modo di vivere la vita e con quello anche I suoi costi. Paghiamo un pareo quanto l’avremmo pagato su una delle nostre spiagge, sdraiati sotto un ombrellone a strisce bianche e blu, a uno dei tanti immigrati che prova a guadagnarsi la giornata.
Ma qui il vicino d’ombrellone non ti guarda.
Anzi, non ci sono nemmeno ombrelloni.
Ci sono gli alberi.
Semplice.
No?

(P.s. Per chi se lo chiedesse, la foto al granchio è stata fatta mentre se ne stava indifferente ai nostri piedi mentre quella al pesce palla non esiste perché non è mai stata scattata. Rubiamo le anime, non le vite.)

Capitolo 2: Ladri di anime.

sabato 30 agosto 2008

spiaggiakenya2.jpg

Il risveglio è avvolto da una zanzariera bianca a forma di baldacchino che circonda tutto il letto. E’ mattina presto e l’aria che entra è fresca e senza suono.
Una fitta rete di tessuto alle finestre impedisce agli insetti di entrare, ma non ai raggi del sole che si appoggiano sugli spartani mobili di legno scuro e tagliano in due il mio libro aperto, con le pagine arricciate dall’umidità.
Le jeep che ci aspetta sembra dell’anteguerra. Il cruscotto appare come un unico blocco nero senza alcun indicatore o spia, il cambio è una leva lunga e sottile in mezzo al nulla.
Ci avviamo e per un attimo mi sembra di andare contromano, prima di ricordarmi che qui la guida è all’inglese. E ha lo stesso sapore coloniale del tè delle cinque che abbiamo preso il giorno prima, guardando la spiaggia bianca che il mare tornava a bagnare dopo la bassa marea della mattina.
Lasciamo la strada principale ed attraversiamo un villaggio, confusi dal tripudio di saluti dei bambini che si precipitano sul ciglio e la decisa freddezza di molti adulti che continuano, sospettosi, le loro attività.
Indecisi se fotografare o meno, vista l’accoglienza incerta, ci lasciamo guidare dal caso, pronti ad abbassare la macchina in caso di reazioni negative.
Le foto ti rubano l’anima, sostiene una vecchia credenza.
E in fondo, è proprio quello che stiamo tentando di fare, dal tetto aperto di queste jeep scassate, agitati dalle buche e bruciati dal sole ormai alto. Rubare l’anima.

La nostra jeep si ferma poco dopo il villaggio, poco lontano dalla nostra meta, ma incapace di ripartire.
Hacuna Matata, come sempre, si affretta a commentare la nostra guida.
Scendiamo, perché davanti a noi, superato qualche albero c’è una distesa sconfinata di sabbia amabilmente disegnata dal vento. Sono linee morbide ma ostinate che si riformano identiche ad ogni soffio d’aria.
Incredibilmente, la jeep, che noi già diamo per persa, riparte e ci porta fino alla foce del fiume.
Mi arrotolo i pantaloni come posso e inizio ad affondare prima con i piedi, poi con le caviglie e infine a metà polpaccio nel fango. Sembrano sabbie mobili. La cosa più difficile è mantenersi in equilibrio perché non sai mai esattamente quanto affonderai e quindi finisci per pendere improvvisamente tutto a destra o a sinistra, cercando disperatamente di non finire per terra, in quella poltiglia. Tutti ci guardiamo I piedi come se tenere lo sguardo fisso sul terreno molliccio aiutasse a rimanere in superficie.
E’ solo quando, acquistata un po’ di sicurezza, rialzo la testa che mi accorgo del motivo che ci ha spinto fino qui.
All’orizzonte, dritto davanti a noi.
Fenicotteri. Rosa. Un mare di fenicotteri rosa.
Ci avviciniamo lentamente, per non spaventarli (e poi provate un po’ a correre nel fango… ). Fino a quando loro decidono che abbiamo superato la distanza di sicurezza e si alzano in volo, per andarsi a posare da un’altra parte.
Noi proviamo a seguirli, tanto più che si sono allontanati da quella melma per tornare su un terreno più sabbioso.
Stavolta ci permettono di avvicinarci di più, fino a quando di nuovo, non superiamo il limite e dispiegano le ali.
Provo a racchiudere il volo dentro il mio obiettivo, poi abbasso la macchina e, con i piedi sempre più piantati per terra, li guardo allontanarsi.